È difficile essere un dio Arkadi Strugatzki Boris Strugatzki La repressione impazza ad Arkanar, nel paesaggio si stagliano le forche. Il Re ha messo al bando tutti gli intellettuali. Gli studiosi inviati dal pianeta terra, ormai pacifico ed evoluto,  cercano di confondersi tra gli abitanti di Arkanar, studiano, osservano, trasmettono informazioni. Intervenire? Creare forzatamente nuovi equilibri, nuove alleanze? Funzionerebbe? Sarebbe giustificabile eticamente? Com'è difficile essere un dio! Arkadi e Boris Strugatzki È difficile essere un dio Traduzione di Marco Pensante Arkadi e Boris Strugatzki 1964 Marcos y Marcos 2005 Titolo originale: Trudno byt’ bogom Prologo La balestra di Anka aveva un’impugnatura di plastica nera. Un verricello silenzioso regolava la corda di acciaio cromato. Anton non apprezzava molto quelle innovazioni. Lui aveva un archibugio convenzionale modello Maresciallo Totz, epoca Re Pitz primo. Era rivestito di rame brunito, e negli ingranaggi scorreva il cavo di tendini di bue. Pashka, invece, aveva un fucile ad aria. Giudicava gli archi delle armi giocattolo, perché era pigro di natura e un po’ maldestro. Attraccarono sulla costa nord, in un punto dove le radici contorte dei pini giganteschi bucavano il pendio di sabbia chiara. Anka lasciò il timone e si guardò intorno. Il sole splendeva alto sulla foresta. Sul lago era sospesa una foschia azzurrina. Il verde lucido dei pini, una spiaggia bianca in lontananza. La cupola del cielo azzurro racchiudeva il paesaggio. I ragazzi si sporsero dalla barca, guardando nell’acqua. «Non si vede niente» disse Pashka. «Un luccio enorme» disse Anton, un po’ avventatamente. «Con quelle pinne?» obiettò Pashka. Anton non rispose. Anka guardava anche lei nell’acqua, ma vedeva solo la propria immagine riflessa. «Perché non facciamo una nuotata?» disse Pashka, immergendo il braccio fino al gomito. «Fredda» osservò. Anton salì sulla prua e scese a terra. La barca dondolava. Anton, tenendola ferma, lanciò a Pashka uno sguardo interrogativo. Lui si alzò, mise in spalla il remo come un portatore d’acqua, piegò un poco le ginocchia e gridò: Vecchio pirata, Lupo di mare Witzliputzli! Stai in guardia, sentinella? Guarda! Un branco di squali tosti Si avvicina, e nuota duro! Anton fece oscillare la barca. «Ehi, ehi!» strillò Pashka, cercando di non perdere l’equilibrio. «Perché ‘tosti’?» chiese Anka. «Non lo so» rispose Pashka. Scesero a terra. «Non male, però, vero? Un branco di squali tosti!» Tirarono in secca la barca. Scivolava sulla sabbia bagnata cosparsa di pigne e di aghi di pino secchi. La barca era pesante, scivolosa, ma riuscirono a tirarla all’asciutto. Poi si fermarono a riprendere fiato. «Mi sono quasi schiacciato un piede» disse Pashka, raddrizzandosi il fez rosso e portandone la nappa sopra l’orecchio destro, proprio come facevano i pirati irukani dal gran naso. «La vita non vale un centesimo!» sentenziò. Anka era intenta a succhiarsi un dito. «Una scheggia?» chiese Anton. «No. Mi sono graffiata. Uno di voi due deve avere le unghie lunghe». «Fa’ vedere». Lei gli mostrò il dito. «Già» osservò Anton. «Un graffio… Be’, muoviamoci!» «Prendi le armi e cominciamo a seguire la spiaggia» suggerì Pashka. «Allora non c’era bisogno di scendere a terra» disse Anton. «È un peccato restare in barca» disse Pashka. «A riva ci sono un sacco di cose. Canne, scarpate, mulinelli, gorghi, conchiglie… Anche pesci gatto». «Un branco di pesci gatto tosti» disse Anton. «Ehi, ti sei mai tuffato in un mulinello?» «Certo». «Strano, non ti ho mai visto». «Ci sono tante cose che non hai mai visto». Anka voltò le spalle, sollevò l’arco e mirò a un pino cinquanta metri più in là. Volarono schegge di corteccia. «Ehi, hai visto?» esclamò Pashka, ammirato. Con il fucile ad aria mirò allo stesso bersaglio. Lo mancò. «Non ho trattenuto bene il respiro» si giustificò. «Anche se lo avessi fatto, che cosa cambiava?» disse Anton. Guardò Anka. Con un movimento deciso, lei caricò la balestra d’acciaio con il verricello. Aveva dei bellissimi muscoli, e Anton ammirò la sfera dura del suo bicipite guizzare sotto la pelle abbronzata. La ragazza mirò attentamente e tirò di nuovo. La seconda freccia si conficcò nel tronco appena sotto la prima. «Non ha senso» disse Anka, e abbassò la balestra. «Che cosa?» chiese Anton. «Così roviniamo gli alberi e basta. Ieri un ragazzo ha tirato una freccia contro un albero e l’ho costretto a tirarla via con i denti». «Pashka sarebbe scappato» disse Anton. «Tu hai buoni denti». «Anch’io so fischiare tra i denti!» esclamò Pashka. «Allora facciamo qualcosa!» disse Anka. «Io non ho voglia di arrampicarmi su e giù per le scarpate» disse Anton. «Neanch’io. Andiamo dritti». «E dove?» chiese Pashka. «Segui il tuo naso». «Che significa?» disse Anton. «Andiamo nella foresta!» propose Pashka. «Toshka, ti ricordi la Strada Dimenticata?» «Certo!» «Sai, Anecka…» disse Pashka. «Non chiamarmi Anecka» sbottò lei. Non sopportava di essere chiamata con altro nome che Anka. Anton sapeva benissimo che non le piaceva, e disse svelto: «Certo, la Strada Dimenticata. Da anni non ci passa più nessuno. Non è neppure segnata sulle carte, e non si sa dove porti». «Ci sei mai stato?» «Sì. Ma non l’abbiamo esplorata». «Una strada che parte dal nulla e porta al nulla» disse Pashka, di nuovo sicuro di sé. «Bello!» esclamò Anka. I suoi occhi divennero due fessure nere. «Andiamo! Pensate che riusciremo a essere là per stasera?» «Ma che dici? Ci arriveremo verso mezzogiorno». Si arrampicarono sul pendio ripido. Arrivati in cima, Pashka si guardò intorno. Sotto di loro c’erano il lago azzurro con i banchi di sabbia gialla e la barca sulla spiaggia. Vicino alla battigia, dove l’acqua era liscia come l’olio, dei cerchi concentrici interrompevano la superficie: il luccio, probabilmente. E il ragazzo sentì, come sempre, la vaga contentezza che provava ogni volta che lui e Toshka scappavano dal collegio e li aspettava un giorno intero di libertà. Un giorno pieno di posti da esplorare, di fragole, di prati deserti bruciati dal sole, lucertole, acque fresche che sgorgavano inaspettatamente tra le rocce. E come sempre si sentiva sopraffare dal desiderio di gridare e di saltare. Anton lo osservava, ridendo allegramente, e Pashka vide nei suoi occhi che aveva capito. Anka mise due dita in bocca e lanciò un fischio penetrante. Entrarono tutti e tre nella foresta. Era un bosco di pini; la vegetazione era rada. I piedi slittavano sul terreno scivoloso e coperto di aghi. I raggi del sole penetravano obliqui tra gli alberi, facendo danzare macchie dorate sul terreno. Nell’aria c’era odore di resina, di lago e di fragole. Da qualche parte, in alto, cinguettava un’allodola. Anka camminava davanti agli altri. Con una mano teneva la balestra e con l’altra ogni tanto coglieva le fragole che occhieggiavano tra il fogliame, rosse come il sangue. Anton camminava dietro di lei con il solido equipaggiamento da combattimento del Maresciallo Totz sulle spalle. La faretra, piena di robuste frecce da guerra, a ogni passo gli urtava ritmicamente il fondo dei pantaloni. Guardò il collo di Anka: era abbronzato, e le vertebre sporgevano come nodi. D’un tratto si voltò, cercando Pashka che era scomparso; ma nel sole, ogni tanto, brillava il suo fez rosso. Anton immaginò l’amico che strisciava silenzioso tra i pini, pronto a sparare con il fucile ad aria, con il viso scarno e il naso aquilino puntato in avanti come un animale da preda. Pashka che strisciava nel sottobosco. Ma la foresta non ha pietà. «Ti sfida, e devi reagire immediatamente» pensò Anton. Stava quasi per piegarsi… Ma Anka camminava davanti, e avrebbe potuto voltarsi in qualunque momento. Sarebbe sembrato davvero uno stupido! Anka si voltò e gli chiese: «Sei scappato via senza far rumore?» Anton si strinse nelle spalle. «Nessuno scappa facendo rumore!» «Be’, io sì. Devo aver fatto un baccano…» disse Anka, preoccupata. «Ho fatto cadere una tazzina, e ho sentito subito dei passi in corridoio. Probabilmente era la vecchia Katia. Oggi era di turno lei. Sono dovuta saltar giù dalla finestra, in un’aiuola. Sai che fiori ci sono in quell’aiuola, Toshka?» Anton aggrottò le sopracciglia. «Sotto la tua finestra? Non lo so, che fiori?» «Fiori robusti. Il vento non li piega, il temporale non li spezza. Ci si può saltare sopra e calpestarli senza che si rovinino». «Interessante» osservò serio Anton. Gli venne in mente che anche sotto la sua finestra c’era un’aiuola di fiori che non si piegavano al vento e che il temporale non spezzava. Ma a dire la verità non ci aveva mai fatto caso. Anka si fermò, aspettando che Anton la raggiungesse. Tese la mano. Era piena di fragole. Con la punta delle dita, Anton ne prese esattamente tre. «Prendine ancora» disse Anka. «No, grazie» disse lui. «Preferisco coglierle da me… Ma senti, Anka, non dev’essere difficile andare d’accordo con la vecchia Katia, no?» «Dipende» rispose lei. «Immagina una che tutte le notti ti ripete che hai i piedi sporchi…» Anka tacque. Era bello camminare con lei nel bosco, fianco a fianco, con le braccia nude che ogni tanto si toccavano. Ed era bello guardarla. Era così carina, così svelta, così aperta… Com’erano grandi, grigi i suoi occhi, e che ciglia scure aveva. «Certo» disse Anton allungando una mano per prendere una ragnatela che brillava nel sole. «A lei i piedi non si sporcano. Anche tu non li sporcheresti, se avessi qualcuno che ti prende in braccio per attraversare le pozzanghere». «Chi la prende in braccio?» «Enrico, quello della stazione meteorologica. Un tipo grande e grosso, con i capelli biondi». «Davvero?» «Non lo sapevi? È una vecchia storia, lo sanno tutti che stanno insieme». Tacquero di nuovo tutti e due. Anton la guardò. I suoi occhi erano due grotte oscure. «E quando è successo?» chiese lei. «Oh, in una notte di luna» rispose Anton senza troppo entusiasmo. «Non dirlo a nessuno, eh?» Anka scoppiò a ridere. «Non è stato difficile strappartelo, Toshka. Vuoi altre fragole?» Meccanicamente, Anton prese le fragole dalla sua mano arrossata e le mangiò. «Non mi piacciono le malelingue» pensò. «Non mi piacciono quelli che sparlano degli altri». Improvvisamente gli venne in mente una cosa. «Un giorno qualcuno prenderà in braccio anche te. Ti piacerebbe se la gente ne parlasse?» «Certo non andrò a dirlo in giro. Non mi piacciono i pettegolezzi» disse Anka. Poi, in tono più confidenziale, continuò: «Sai, sono proprio stufa di dovermi lavare i piedi due volte ogni notte». «Povera vecchia Katia» pensò Anton. «Che dura battaglia». Arrivarono a un sentiero che si inerpicava nel bosco e diventava sempre più buio. Le felci e l’acetosella crescevano rigogliose. I tronchi dei pini erano coperti di muschio e segnati dalla schiuma biancastra dei licheni. Ma la foresta non ha pietà. Improvvisamente una voce aspra e stridula, disumana, gridò: «Fermi! Gettate a terra le armi! Lei, messere, e anche lei, madonna!» Anton sapeva che se si presenta una sfida nel bosco bisogna reagire subito. Con precisione calcolata, spinse Anka a sinistra del sentiero, tra le felci, mentre lui si buttava a destra. Inciampando, si nascose dietro la schiuma puzzolente dei licheni. Tra gli alberi echeggiava ancora la voce’ stridula, ma il sentiero era vuoto. Di colpo tutto tacque. Anton si voltò per piegare l’arco, ma una freccia gli cadde accanto. Su di lui piovve un cumulo di sporcizia. La voce stridula e disumana annunciò: «Messere, è stato colpito al tallone!» Anton gemette, sollevando la gamba sinistra. «Non quello, il tallone destro!» precisò la voce. Sentiva Pashka ridacchiare lì vicino. Cautamente, Anton sbirciò tra le felci, ma non riusciva a vederlo nell’oscurità verde di quella giungla. In quel momento si sentì un sibilo penetrante, poi un tonfo, come se fosse caduto un albero. «Uuh!» ululò Pashka con voce sofferente. «Abbiate pietà! Risparmiatemi! Non uccidetemi!» Anton balzò in piedi. Nascosto tra le felci, vide Pashka che si avvicinava malfermo, con le mani alzate. La voce di Anka chiese: «Toshka, lo vedi?» «Sì, lo vedo» rispose allegramente Anton. «Non muoverti!» gridò in direzione di Pashka. «Metti le mani sulla testa!» Pashka, ubbidiente, intrecciò le mani sul capo esclamando: «Non parlerò». «Che cosa ne facciamo, Toshka?» chiese Anka. «Fra un attimo lo saprai» rispose Anton, sedendosi per terra e appoggiandosi la balestra sulle ginocchia. «Nome!» gracchiò con la voce della strega di Irukan. Pashka si limitò a inarcare la schiena, facendo un gesto di disprezzo. Non voleva arrendersi. Anton tirò. La freccia pesante attraversò i rami sopra la testa di Pashka. «Oooh!» esclamò Anka. «Mi chiamano Don Sarancha» confessò Pashka a denti stretti. Poi cominciò a recitare: «E qui giace, come potete vedere, uno dei miei complici». «Un brigante infame, un assassino» precisò Anton. «Ma si sa che non fa mai niente per niente. Per conto di chi fai la spia?» «Mi manda Don Satarina lo Spietato» mentì Pashka. Anton divenne sprezzante. «Questa mia mano ha spezzato il filo della vita indegna di Don Satarina due anni fa, sulla Piazza delle Spade». «Lo devo trapassare con una freccia?» si informò Anka. «Oh, me n’ero dimenticato» si corresse Pashka. «A dire il vero, mi manda Arata il Bello. Mi ha promesso cento monete d’oro in cambio delle vostre teste». Anton si batté le ginocchia. «Bugiardo!» gridò. «Credi davvero che Arata si abbasserebbe a trattare con un manigoldo come te?» «Forse sarebbe meglio trafiggerlo, dopotutto» disse Anka, assetata di sangue. Anton scoppiò in una risata diabolica. «A proposito» disse Pashka. «Sei stato colpito al tallone. Avresti dovuto essere svenuto da un pezzo, avendo perso tanto sangue». «Balle!» replicò Anton. «Primo, ho tenuto in bocca un pezzo di corteccia dell’Albero Bianco. Secondo, due belle fanciulle barbare mi hanno bendato la ferita». Le felci cominciarono a muoversi, e Anka avanzò sul sentiero. Aveva un graffio sulla guancia e le ginocchia sporche di terra e di licheni. «È ora di gettarlo nella palude» disse. «Se il nemico non si arrende bisogna distruggerlo». Pashka lasciò cadere le braccia. «Tu non stai mai alle regole!» disse ad Anton. «Con te va sempre a finire che la strega è una brava persona!» «Sei tu che non sai la regola principale!» rispose Anton, rimettendosi anche lui sul sentiero. «La foresta non ha pietà, lurido mercenario». Anka restituì a Pashka il fucile ad aria. «Voi due avete proprio una buona mira» disse invidiosa. «Mirate sempre così vicino?» «Che cosa credevi?» disse Pashka. «Noi non andiamo in giro a strillare: ‘Bang bang, sei morto!’ Quando giochiamo corriamo sempre dei rischi». Anton aggiunse, con noncuranza: «Giochiamo spesso a Guglielmo Tell». «Facciamo a turno» aggiunse Pashka. «Una volta tengo io la mela in testa, la volta dopo tocca a lui». «Davvero?» Anka parlava lentamente. «Mi piacerebbe moltissimo vederlo, prima o poi». «Te lo facciamo vedere adesso… Con piacere!» disse improvvisamente Anton. «Peccato non avere una mela!» Pashka fece un largo sorriso. Ma Anka, svelta, prese il suo fez da pirata e lo piegò a forma di cono. «Non è indispensabile che sia una mela!» disse. «Questo sarà un ottimo bersaglio. Dai, giochiamo a Guglielmo Tell!» Anton prese in mano il cono rosso e lo esaminò attentamente. Guardò Anka. I suoi occhi erano scuri come un pozzo. Pashka faceva salti di gioia. Si sentiva importante. Anton gli diede il cono. «Riesco a colpire il centro del bersaglio da una distanza di trenta passi» disse con indifferenza. «Naturalmente solo con una pistola che conosco». «Davvero?» chiese Anka, e si rivolse a Pashka. «E tu? Sei capace di centrare il bersaglio da trenta passi?» «Ho fama di essere il tiratore più veloce su questa sponda del lago!» sorrise. «Proviamo». Anton fece dietro-front e cominciò a camminare lungo il sentiero, contando ad alta voce, «…quindici… sedici… diciassette…» Pashka disse qualcosa che Anton non riuscì a sentire, e Anka rise, a voce troppo alta. «Trenta» esclamò Anton, e si voltò. A quella distanza Pashka sembrava piccolissimo. Il cono rosso sembrava un cappello da somaro. Sorrideva. Stava ancora giocando. Anton si chinò e sollevò con facilità la balestra. «Dio vi benedica, padre mio!» gli gridò Pashka. «E qualunque cosa succeda, grazie di tutto!» Anton mise un proiettile nella fessura. Si raddrizzò. Pashka e Anka lo guardarono, in piedi l’uno accanto all’altra. Il sentiero si allungava fra loro come un passaggio umido e buio tra due alte mura verdi. Anton sollevò la balestra. L’equipaggiamento da guerra del Maresciallo Totz sembrava diventato improvvisamente pesantissimo. «Mi tremano le mani» pensò Anton. «Brutto segno. Che assurdità!» Ricordò che l’inverno prima lui e Pashka si erano divertiti a tirare palle di neve per un’ora contro un ghiacciolo su uno steccato. Avevano tirato da una distanza di venti piedi, poi quindici, poi dieci, senza riuscire a colpirlo. E infine, quando si erano stancati del gioco e avevano quasi deciso di lasciar perdere, Pashka aveva lanciato un’ultima palla, senza neppure prendere la mira, e aveva fatto centro. Anton premette il calcio contro la spalla. «Anka gli sta troppo vicino» pensò. Stava quasi per gridarle di spostarsi un po’, ma gli venne in mente che avrebbe fatto la figura dello stupido. Più alto… Ancora più alto… Più alto… Improvvisamente fu sicuro che il proiettile avrebbe colpito l’amico in mezzo agli occhi, si sarebbe conficcato profondamente tra quegli occhi verdi e allegri, anche se si fosse voltato e avesse scoccato la freccia nella direzione opposta. Aprì gli occhi e guardò Pashka. Il suo sorriso era scomparso. Anka sollevò lentamente la mano, poi allargò piano le dita. Sul suo viso c’era un’espressione intensa, matura. Anton alzò ancora un po’ la balestra e tirò. Non riuscì a seguire il volo della freccia. «Mancato!» disse a voce alta. Si avviò sul sentiero, ma le gambe non volevano obbedirgli. Pashka si strofinò il cono rosso sul viso, si scrollò come un cane bagnato, srotolò il cono e gli ridiede la forma originale. Anka si chinò per raccogliere la sua balestra. «Se me la spacca in testa» pensò Anton «le dico anche grazie». Ma lei non lo degnò di uno sguardo. Si rivolse invece a Pashka e gli chiese: «Ce ne andiamo?» «Subito» rispose lui. Guardò Anton, battendosi la fronte con un dito. «Ma anche tu hai avuto paura» disse Anton. Pashka tacque. Si batté di nuovo la fronte con un dito e seguì la ragazza. Anton camminava lentamente dietro di loro, affrontando i suoi dubbi. «Che cosa ho fatto?» pensava. Di colpo, si sentiva la testa pesantissima. «Perché sono così seccati? Pashka… be’, lui se la faceva addosso. Chissà chi era più spaventato: papà Guglielmo o suo figlio? Ma cos’ha Anka? Forse era preoccupata per Pashka. Ma che cosa avrei dovuto fare? Adesso mi lasciano indietro, neanche fossi un rinnegato. Dovrei andarmene per conto mio. Se giro a sinistra, più avanti, c’è un laghetto molto interessante. Potrei anche catturare un gufo. Non sarebbe bello?» Ma non rallentò neppure. «Meglio così» si disse. Aveva letto da qualche parte che queste cose accadevano spesso. Raggiunsero la Strada Dimenticata più in fretta di quanto avessero pensato. Ormai il sole era alto, e faceva molto caldo. Gli aghi di pino pungevano la pelle nuda. La strada era lastricata di cemento: due corsie di blocchi crepati, grigio-rossastri. Ciuffi di erba secca spuntavano tra le crepe. Sui bordi, ai due lati, crescevano cardi polverosi. Tutto intorno volavano grossi mosconi ronzanti, e uno, dai colori metallici, urtò contro la fronte di Anton. L’aria era immobile, soffocante. «Voi due, guardate!» esclamò Pashka. Indicò un cartello tondo di metallo, sospeso a un cavo arrugginito teso in mezzo alla strada. La vernice era tutta scrostata. Si distingueva a malapena una striscia orizzontale su un fondo rosso. «Che cos’è?» chiese Anka. Non sembrava molto interessata. «Un segnale stradale» spiegò Pashka. «Vietato l’accesso». «Strada a senso unico» disse Anton. «Che significa?» domandò Anka. «Vuol dire che non si può entrare» disse Pashka. «E allora perché hanno fatto la strada?» Pashka si strinse nelle spalle. «È una strada vecchissima». «È una strada anisotropa» spiegò Anton. Anka gli volgeva le spalle. «Il traffico segue una direzione sola». «La saggezza dei nostri avi» disse Pashka pensosamente. «Guidi tranquillo per duecento miglia e improvvisamente crac, bam, ‘Vietato l’accesso’! ‘Senso unico’! E non puoi andare avanti, e non c’è nessuno a cui chiedere». «Pensate a cosa può esserci dall’altra parte di quel segnale stradale!» esclamò Anka. Si guardò intorno. Chilometri e chilometri di foresta deserta, e nessuno a cui chiedere cosa ci fosse dietro quel cartello. «Forse non indica affatto una strada anisotropa» disse. «La vernice è quasi tutta scrostata». Anton imbracciò la balestra, prese accuratamente la mira e tirò. Sarebbe stato bello se la freccia avesse colpito il cavo facendo cadere il cartello proprio ai piedi di Anka. Ma la freccia colpì la parte superiore del disco, attraversò il metallo arrugginito e fece cadere solo qualche frammento di vernice secca. «Cretino!» disse Anka senza neanche voltarsi. Erano le prime parole che gli rivolgeva da quando avevano giocato a Guglielmo Teli. Anton sorrise, mortificato. «E imprese di gran livello e importanza» recitò «a questo sguardo inverton la corrente e perdono il nome di azione». Il fedele Pashka gridò: «Ehi, ragazzi, di qui è passata una macchina! Dopo il temporale. Sull’erba c’è ancora il segno delle ruote! E qui…» «Sempre fortunato, lui» pensò Anton. Esaminò attentamente le tracce delle gomme. Anche lui vide l’erba ammaccata e i segni di una frenata improvvisa davanti a una buca nel cemento. «Capisco» gridò Pashka. «La macchina dev’essere venuta dall’altra parte, da dietro il cartello». Sembrava ovvio, ma Anton disse: «Balle! Veniva dall’altra parte!» Pashka lo guardò sorpreso. «Ma che dici? Sei cieco come una talpa!» «È venuta da questa parte. Seguiamo le tracce». «Sei un idiota!» Pashka sembrava arrabbiato. «Secondo te una persona normale andrebbe nel senso contrario a quello della strada? Guarda qua: qui c’è la buca, e là i segni della frenata… Allora, da dove veniva la macchina?» «Non mi interessa! Seguirò questa strada anche se è senso vietato». Pashka impallidì dalla rabbia. «Allora vai pure!» Gli venne il singhiozzo. «Che idiozia! Il sole deve averti cotto il cervello». Anton si voltò. Guardò dritto davanti a sé, si chinò sotto il cartello e passò dall’altra parte. Sperava solo di trovare un ponte crollato e di dover tornare indietro. «Con loro non ho più niente da spartire» pensò. «Vadano dove gli pare. Lei e il suo caro Pashka». Poi gli venne in mente come l’aveva interrotto quando l’aveva chiamata Anecka, e sentendosi un po’ sollevato, si voltò e si guardò indietro. Lo sguardo gli cadde su Pashka. Come un cane che annusava una traccia, Don Sarancha seguiva i segni lasciati dalla macchina misteriosa. Il cartello arrugginito oscillava piano sopra la strada, e il cielo azzurro brillava nel foro lasciato dalla freccia. Anka era seduta sul ciglio della strada con i gomiti puntati sulle ginocchia, il mento appoggiato sui piccoli pugni. Erano sulla via del ritorno. Stava calando la sera. I due ragazzi remavano mentre Anka stava al timone. Sulla foresta immersa nell’oscurità brillava la luna rossastra, e le rane gracidavano instancabili. «Avevamo progettato tutto così bene» disse Anka malinconicamente. «Voi due…!» I ragazzi tacquero. Poi Pashka domandò sottovoce: «Toshka, che cosa hai trovato dietro il segnale stradale?» «Un ponte crollato. E lo scheletro di un tedesco incatenato a una mitragliatrice». Rifletté un poco, e aggiunse: «La mitragliatrice era affondata quasi completamente nel terreno». «Mmh, già. Cose che succedono. Io ho aiutato uno a riparare la macchina». Capitolo I Mentre Rumata oltrepassava la tomba di san Michele, la settima e anche l’ultima su quel tratto di strada, era già calata la notte. Il prezioso stallone camalariano vinto a carte a Don Tameo si era rivelato un misero bolso. L’animale era madido di sudore, continuava a inciampare, e il suo trotto irregolare ricordava il beccheggio di una nave. Rumata gli premette forte le ginocchia nei fianchi e lo colpì con il guanto tra le orecchie. L’animale rispose con un movimento stanco senza cambiare andatura. Nell’oscurità, i cespugli sul ciglio della strada sembravano nuvole di fumo solido. Sciami di mosche fastidiose ronzavano intorno alla testa del cavaliere. In alto, nel cielo notturno, brillava fiocamente qualche stella. Folate leggere e irregolari di vento lo accarezzavano, prima fredde e poi tiepide, come sempre su quella zona costiera quando arriva l’autunno, con le sue giornate afose e polverose e le sue notti gelide. Rumata si strinse nel mantello e lasciò andare le redini. Inutile cercare di procedere più veloce. Mancava ancora un’ora a mezzanotte, e riusciva già a distinguere all’orizzonte il profilo scuro e frastagliato della Foresta del Singhiozzo. A destra e a sinistra della strada si stendevano campi male arati. Alla luce fioca delle stelle brillavano le paludi, che puzzavano di vegetazione e animali putrefatti; qua e là incombevano i profili delle colline e quel che restava delle palizzate di legno mezze marce dell’epoca della Grande Invasione. In lontananza tremolavano fiamme sinistre: probabilmente laggiù bruciava qualche villaggio, uno degli innumerevoli disgraziati paesi tutti uguali che fino a poco tempo prima si chiamavano «Villaggio della Morte», «Collina del Patibolo», o «Covo dei Briganti». Gli editti imperiali li avevano ribattezzati «Bosco Fiorito», «Porto della Pace», «Casa dell’Angelo». La regione si estendeva per centinaia di chilometri dalle rive della Grande Baia fino alla misteriosa Foresta del Singhiozzo. Era una zona brulicante di zanzare, scavata da gole, mezza soffocata dalle paludi. I suoi abitanti erano decimati dalle febbri e costantemente minacciati dalle pestilenze, come anche da semplici raffreddori. Presso una curva, una figura nera uscì dai cespugli. Il cavallo improvvisamente scartò e alzò la testa. Rumata recuperò subito le redini, poi con un movimento rapido si aggiustò la manica destra (una sua vecchia abitudine) e afferrò la spada. Guardò meglio. L’uomo sul ciglio della strada si tolse il cappello. «Buonasera, nobile signore» disse piano. «Chiedo scusa». «Che c’è?» chiese Rumata. Tese l’orecchio in direzione dei cespugli. Non esiste un’imboscata silenziosa. I briganti vengono traditi dal suono delle corde dei loro archi. Gli uomini della Milizia Grigia ruttano in continuazione la loro birra acida. Le orde di baroni sbuffano avide e fanno tintinnare le sciabole. E i monaci a caccia di schiavi si grattano rumorosamente. No, nei cespugli tutto era silenzio. Lo sconosciuto non era un guerrigliero, pensò Rumata. Non aveva neppure l’aria di un cecchino: era un cittadino basso e rozzo avvolto in un mantello non troppo costoso. «Mi permette di camminare a fianco del suo cavallo?» chiese al cavaliere, inchinandosi profondamente. «Venga» rispose Rumata giocherellando con le redini. «Può tenersi alla staffa». L’uomo cominciò a camminare accanto a lui, tenendo in mano il cappello. Era completamente calvo. «Il castaldo di qualche barone» pensò Rumata. «Visita i nobili e i mercanti di bestiame, compra la canapa e il lino. Un uomo di fiducia… Oppure, forse non è affatto un castaldo. Forse è un topo di biblioteca, o un fuggiasco. Forse è un fannullone. Di notte ne circolano molti per le strade, senz’altro più che i castaldi. Ma potrebbe anche essere una spia…» «Chi è lei, e da dove viene?» chiese. «Mi chiamo Kiun» rispose l’uomo, malinconicamente. «Vengo da Arkanar». «Vuol dire che sta scappando da Arkanar» disse Rumata, chinandosi leggermente verso di lui. «Sì». L’uomo parlava tristemente. «Un eccentrico, un tipo strano» pensò il cavaliere. «Oppure è una spia? Lo terrò d’occhio… Ma perché dovrei tenerlo d’occhio? A che pro? Chi sono io per metterlo alla prova, giudicarlo? Non ho neppure voglia di guardarlo! Perché non dovrei credergli sulla parola? Ecco un uomo, un intellettuale in fuga, la sua vita è appesa a un filo… Si sente solo, è debole, ha paura, cerca una mano amica, ed ecco che si imbatte in un aristocratico. Gli aristocratici sono troppo stupidi e arroganti per sapere qualcosa di politica. Invece portano sciabole e non amano la Milizia Grigia. Perché il cittadino Kiun dovrebbe chiedere protezione a un aristocratico stupido e arrogante? Questo è il punto. Naturalmente non lo terrò sempre sotto controllo. Non c’è ragione. Parliamo un po’, piuttosto, per passare il tempo, e poi ci saluteremo da buoni amici…» «Kiun» disse ad alta voce. «Una volta ho conosciuto un Kiun. Faceva il ciarlatano e l’alchimista in via Klempner. Siete parenti?» «Oh sì, certo» rispose Kiun. «Sono solo un lontano parente, ma a quelli non interessa. Vogliono sterminare la nostra stirpe fino alla dodicesima generazione». «E dove sta scappando, Kiun?» «In qualunque luogo. Il più lontano possibile. Molti sono fuggiti a Irukan. Ci proverò anch’io». «Bene, bene» disse Rumata. «E pensa che il nobile signore la farà passare sano e salvo attraverso i posti di blocco?» Kiun tacque. «Oppure crede forse che il nobile signore non sappia che uomo è in realtà l’alchimista di via Klempner?» Kiun continuò a tacere. «Mi sembra proprio di dire un sacco di sciocchezze» pensò Rumata. Ma si sollevò sulle staffe, e imitando il banditore di Piazza Reale riempì i polmoni e gridò: «Accusato e condannato per i crimini più orribili e imperdonabili contro Dio, la Corona e la pubblica sicurezza!» Kiun restava zitto. «E cosa succederebbe se il nobile signore adorasse e riverisse Don Reba, padre di tutti gli abomini!? Se fosse devoto con tutto il cuore alla causa della Milizia Grigia? Oppure pensa che sia assolutamente fuori discussione?» Kiun non parlava. Sulla destra si stagliava il profilo scuro di una forca. Un cadavere nudo, spettrale, appeso per i piedi, penzolava da una sbarra. «Ebbene» pensò Rumata «a che serve?» Tirò le redini, afferrò Kiun per le spalle e gli fece voltare il viso dalla sua parte. «E cosa ne direbbe se il nobile signore la impiccasse proprio accanto a quella forca?» disse fissando il viso pallido e le orbite scure dell’uomo. «Potrei farlo con le mie mani. Preciso, veloce. Con una bella corda di Arkanar, perché no? In nome di qualche ideale? Perché non parli, topo di biblioteca?» Kiun taceva. Batteva i denti per la paura e si divincolava debolmente sotto la mano forte di Rumata, come una lucertola in trappola. Improvvisamente si udì un tonfo, come se qualcosa fosse caduto nel canale che costeggiava la strada. Allo stesso tempo, come per coprire il rumore nell’acqua, l’uomo gridò, disperato: «Allora impiccami, traditore!» Rumata prese fiato e lo lasciò andare. «Stavo solo scherzando. Non abbia paura». «Menzogne, menzogne» singhiozzò Kiun. «Menzogne dappertutto». «Le chiedo scusa. Mi perdoni! Però farebbe meglio a ripescare quella cosa che ha appena buttato in acqua. Si inzupperà». Kiun non si mosse. La parte superiore del suo corpo oscillava avanti e indietro per l’indecisione. Continuava a singhiozzare piano, battendosi il mantello con le dita, insensatamente. Poi scese lentamente nel canale. Rumata aspettava. Era molto stanco, e si accasciò sulla sella. «Così dev’essere» pensò. «Non si può fare diversamente». Kiun uscì dal canale barcollando, con un fagotto nascosto sotto il mantello. «Libri, naturalmente» disse Rumata. Kiun scosse piano la testa. «No» disse con voce rauca. «Uno solo. Il mio libro». «Che cosa scrive?» «Temo che non le interesserebbe, nobile signore». Rumata corrugò la fronte, sospirando. «Afferri la staffa» disse. «Andiamo». Tacquero entrambi per molto tempo. «Ascolti, Kiun» disse poi Rumata. «Stavo solo scherzando. Non abbia paura di me». «Che mondo. Che mondo ridicolo. Tutti si divertono, e tutti allo stesso modo. Perfino il nobile Don Rumata». Rumata fu sorpreso. «Conosce il mio nome?» «Sì. L’ho riconosciuta dal cerchietto sulla fronte. E pensare che ero così contento di averla incontrata, tra tutti i viandanti di questa strada…» «Ma certo» pensò Rumata. «Ecco a cosa pensava, quando mi ha chiamato traditore». Disse: «Vede, pensavo che lei fosse una spia. E di solito le uccido subito». «Spia? Certo. Oggi è così facile, così redditizio fare la spia. La nostra aquila fiammante, il nostro nobilissimo Don Reba è impaziente di sapere cosa dicono e cosa pensano i sudditi del re. Mi piacerebbe fare la spia. Un informatore come si deve, alla Taverna della Grigia Gioia. Che distinzione, che onore! Alle sei esco per andare alla taverna. L’oste mi accompagna al solito tavolo portandomi il primo boccale, e posso bere fino a scoppiare. È Don Reba che paga la birra… Anzi, per essere precisi, non la paga nessuno. Sto seduto lì davanti alla mia birra, con le orecchie bene aperte. Qualche volta faccio finta di prendere nota delle conversazioni. Mi par di vederli, quei poveracci spaventati che corrono a offrirmi la loro amicizia e le loro borse. Vedo nei loro occhi quello che ho sempre desiderato: la devozione del cane battuto, stupore, timore e odio impotente. Posso avere tutte le ragazze che voglio, in qualunque momento. Le donne si sciolgono nelle mie braccia sotto gli occhi dei loro mariti… Tutti uomini ben piantati, che restano lì con un sorrisetto ossequioso sulle labbra. Una meravigliosa prospettiva, signore, non siete d’accordo? L’ho sentito raccontare con le mie orecchie da un quindicenne, un allievo della Scuola Patriottica…» «E cosa gli ha detto?» «Cosa avrei dovuto dirgli? Non avrebbe capito comunque. Allora gli ho parlato degli uomini di Waga Koleso, il capo dei briganti. Quando catturano una spia, gli aprono la pancia e gliela riempiono di pepe. Poi ci sono anche i soldati ubriachi che ficcano le spie in un sacco e le gettano nel lago. E badate che gli stavo dicendo la verità, la pura verità… Ma non voleva credermi. Mi ha detto: ‘Non è quello che ci insegnano a scuola’. Allora ho preso un pezzo di carta e ho cominciato a trascrivere la nostra conversazione. Ne avevo bisogno per il mio libro, ma il povero ragazzo ha pensato che volessi denunciarlo. In un attimo era in un bagno di sudore…» Scorgevano le luci che tremolavano attraverso il fogliame degli alberi lungo la strada. Provenivano dalla taverna Lo Scheletro di Bako. I passi di Kiun divennero esitanti e tacque nuovamente. «Che cosa c’è?» chiese Rumata. «Una pattuglia della Milizia Grigia. Laggiù» rispose Kiun, senza fiato. «Bene, e allora? Ascolti. Noi amiamo e riveriamo questi uomini semplici e rudi, i nostri Ragazzi Grigi, i militi. Ne abbiamo bisogno. D’ora in poi la gente farà meglio a tenere d’occhio la lingua, se non vuole penzolare dal ramo più vicino!» Rise, perché aveva espresso il concetto splendidamente. Proprio il linguaggio delle Baracche Grigie. Kiun sembrò farsi più piccolo. Ritirò la testa fra le spalle. «La gente semplice deve stare al suo posto. Dio non ha dato loro la lingua per parlare, ma per leccare lo stivale del loro signore, del nobile che è stato posto al di sopra di loro dall’origine dei tempi…» Nel recinto dietro la locanda scalpitavano i cavalli sellati della Pattuglia Grigia. Da una finestra aperta provenivano le imprecazioni rauche dei giocatori e il rumore degli astragali. Sulla soglia c’era Scheletro Bako in persona, che ostruiva il passaggio con il suo ventre enorme. Portava una vecchia giubba* di cuoio sdrucita dappertutto. Gli orli delle maniche grondavano umidità. Con la zampa pelosa stringeva un randello. Evidentemente aveva appena ucciso un cane per la zuppa, si era ricoperto di sudore per lo sforzo ed era uscito a riprendere fiato. Uno Sturmovik Grigio ciondolava sulle scale, con l’ascia da guerra tra le ginocchia. L’impugnatura massiccia lo costringeva a voltare la faccia da una parte. Non era difficile intuire che stava smaltendo i postumi di una sbornia colossale. Appena ebbe notato il cavaliere si schiarì la gola, sputò per terra e gridò, rauco: «Ferma! Chi va là? Alt! Signore!» Rumata fece a malapena un cenno, oltrepassando l’uomo senza degnarlo di uno sguardo. «…Ma se la loro lingua lecca lo stivale sbagliato» disse ad alta voce «allora dev’essere strappata, perché sta scritto: ‘La tua lingua è il mio nemico’…» Nascosto dalla groppa del cavallo, Kiun si affrettava a passi lunghi. Con la coda dell’occhio, Rumata notò che la sua testa calva era lucida di sudore. «Alt, ho detto!» ringhiò lo Sturmovik. Si sentiva la sua ascia sfregare sui gradini mentre scendeva le scale bestemmiando Dio, il diavolo e tutti i nobili. «Devono essere in cinque» pensò Rumata aggiustandosi i polsini di pizzo. «Macellai, ubriaconi. E con ciò?» Ormai avevano oltrepassato la taverna, e continuavano a camminare verso il bosco. «Posso andare più svelto, se vuole» disse Kiun, con voce esageratamente decisa. «No di certo!» rispose Rumata, facendo rallentare il cavallo. «Sarebbe noioso cavalcare per tante miglia senza neanche una scaramuccia. Non vuole proprio battersi un po’, Kiun? Lei si limita a parlare, vero?» «No. Non provo mai il desiderio di battermi». «È proprio questo il guaio» bofonchiò l’altro, seccato. Si portò con il cavallo sul ciglio della strada, aggiustandosi nervosamente i guanti. Da una curva spuntarono due cavalieri lanciati al galoppo. Come lo videro, si fermarono. «Ehilà, nobile signore, mostri il lasciapassare!» «Villano. Non sai neanche leggere, a che ti serve il lasciapassare?» Rumata era gelido. Premette forte le ginocchia nei fianchi del cavallo, che cominciò a trottare spedito verso i due inseguitori. «Codardi» pensò. «Diamogliele! No, a che serve? Sono impaziente di far esplodere la rabbia che ho accumulato per tutto il giorno, ma non ne ricaverei niente. Quindi restiamo calmi, superiori. Restiamo imperturbabili, come gli dèi. Gli dèi non hanno fretta; dopotutto, hanno tutta l’eternità a disposizione…» Si avvicinò agli Sturmovik. I due, non più tanto sicuri, afferrarono le asce e indietreggiarono. «Dunque?» chiese lentamente Rumata. «Oh… Che vuole?» balbettò il più coraggioso dei due Sturmovik, imbarazzato. «Voglio dire… Lei è il nobile Don Rumata?» Il suo compagno aveva già voltato il cavallo e si era allontanato al galoppo. Il primo Sturmovik continuò a indietreggiare, abbassando l’ascia. «Chiedo umilmente scusa, signore. Non vi avevamo riconosciuto, da così lontano… Ordini ufficiali, sapete… È facile sbagliarsi. I camerati hanno bevuto un po’, e sono pieni di entusiasmo…» fece girare il cavallo, pronto ad andarsene. «Capirà, signore, di questi tempi… Siamo alle calcagna di quei topi di biblioteca… Spero che non si lamenterà di noi, signore…» Rumata gli voltò le spalle. «Buon viaggio, nobile signore!» gli gridò l’uomo, sollevato. Non appena i due cavalieri furono scomparsi alla vista, Rumata chiamò piano Kiun. Nessuno rispose. «Ehi, Kiun!» Nessuna risposta. Ascoltò più attentamente; riuscì a sentire un lontano fruscio nei cespugli, che il ronzio incessante delle zanzare e dei moscerini non riusciva a coprire. Kiun stava attraversando la campagna verso ovest, in direzione del confine irukano. «Così è» rifletté Rumata. «A che scopo questa conversazione? E sempre la stessa cosa, sempre, sempre. Dapprima l’esplorazione cauta, poi uno scambio guardingo di osservazioni ambigue… Un giorno dopo l’altro si sprecano energie in chiacchiere stupide con pezzenti di tutte le risme; ma se si è abbastanza fortunati da incontrare una persona vera non c’è tempo per parlare a cuore aperto. Si vorrebbe proteggerla, aiutarla a trovare un rifugio… E questa persona se ne va senza neppure sapere se ha incontrato un amico o un mascalzone. E neanche tu hai scoperto niente di lei… i suoi desideri, i suoi talenti, i suoi valori, le sue mete…» Cominciò a pensare ad Arkanar. Case di pietra lungo le vie principali, lanterne cordiali accese sulla porta delle taverne, negozianti gentili e soddisfatti che bevono birra ai tavolini puliti e chiacchierano della vita, che dopotutto non è male, o del prezzo del pane in ribasso, o di quello delle bardature in rialzo; qua e là si svela un complotto, topi di biblioteca e maghi vengono arrestati; il Re è grande e munifico come sempre; Don Reba, comunque, è straordinariamente intelligente, e sta sempre in guardia. «Non mi dire!» «Sembra che sia proprio così» «Il mondo è rotondo!» «Per quanto mi riguarda, potrebbe anche essere quadrato, ma non toccare i nostri scienziati!» «Credimi, fratello, tutte le nostre disgrazie vengono da quei sapientoni!» «Il denaro non dà la felicità; anche il contadino è un essere umano, dicono. Bene, ma continuate così… dopo un po’ di queste poesie che li eccitano iniziano a scatenare il finimondo, sommosse, insurrezioni» «Mandateli tutti in galera, fratelli. Io, per esempio, sapete che cosa farei? Gli chiederei subito: sai leggere e scrivere? In gattabuia! Sei esperto di diagrammi? In gattabuia! Sai troppe cose!» «Bina, tesoro, altri tre boccali di birra e una lepre arrosto!» E fuori dalla finestra, tum tum tum, marciano gli scarponi chiodati dei robusti camerati con il naso rosso e la camicia grigia. Sulla spalla destra, l’ascia. Fratelli! Ecco i nostri protettori! Loro tengono lontane quelle canaglie istruite!… E quello là è il mio ragazzo, mio figlio. Là, sul fianco destro! Sì, fratelli, viviamo in un’epoca meravigliosa! La nostra monarchia è stabile, prosperità, legge e ordine incrollabili, e giustizia. Urrà per le nostre Truppe Grigie! Urrà, Don Reba! Lunga vita al Re! Questa è vita, fratelli! Sulle pianure buie del regno di Arkanar, però, illuminate dagli incendi, centinaia di sventurati sono in fuga, intenti a eludere i posti di blocco correndo, inciampando e ricominciando a correre. Punti dalle zanzare, con i piedi sanguinanti, coperti di polvere e di sudore, tormentati, terrorizzati e torturati dalla disperazione, ma forti come l’acciaio e incrollabili. Sono accusati e perseguitati ingiustamente. Perché? Perché curano e istruiscono il loro popolo decimato dalle malattie e schiacciato dall’ignoranza. Perché, come dèi, creano una seconda natura dalla pietra e dall’argilla spinti dal desiderio di abbellire l’esistenza, e tutto per un popolo che non conosce la bellezza. Perché penetrano i segreti della natura sperando di metterli al servizio del popolo ottuso e apatico, per il suo bene, dopo che è stato mantenuto nell’ignoranza dalle antiche arti magiche. Sono indifesi, generosi e pericolosi, molto in anticipo sul loro tempo… Rumata si tolse un guanto e colpì sonoramente il suo cavallo tra le orecchie. «Avanti, brutto ronzino!» disse. Quando entrò nella foresta era ormai passata la mezzanotte. Nessuno avrebbe saputo dire con certezza da dove veniva quello strano nome, «Foresta del Singhiozzo». Circolava una voce, accreditata da fonti ufficiali, secondo la quale circa tre secoli prima le Squadre di Ferro del Maresciallo Imperiale Totz, poi primo Re di Arkanar, erano penetrate nella foresta inseguendo le orde in ritirata dei barbari pelle-di-rame. Là quei valorosi avevano ricavato una specie di birra rudimentale dalla corteccia degli Alberi Bianchi, che si era rivelata tanto scadente da provocare continuamente a chi la beveva rutti e singhiozzo. Il mattino dopo, continuava la leggenda, quando il Maresciallo Totz era andato a ispezionare il campo, aveva arricciato il suo naso di sangue blu dicendo: «È veramente insopportabile! La foresta intera ha il singhiozzo e puzza di birra!». Si diceva che quella fosse l’origine di un nome tanto insolito. Che la leggenda avesse qualche fondamento poteva essere discutibile, ma in ogni caso quella non era una foresta come tutte le altre. Vi crescevano alberi giganteschi dal tronco bianco, di una specie che non si trovava più in nessun altro luogo della regione. Neppure nel ducato di Irukan, e neanche nella Repubblica Mercantile di Soan, dove tutti gli alberi erano stati abbattuti da tempo per costruire navi. Si diceva che molti boschi simili a quello esistevano ancora al di là delle Montagne Rosse, nella terra dei barbari, ma si sa che sui barbari si raccontano molte storie… Un paio di secoli prima, nella foresta, era stato aperto un sentiero che portava alle miniere d’argento. In base alla legge feudale, la nobile famiglia dei Baroni di Pampa, discendenti da un camerata del Maresciallo Totz, ne aveva l’appalto. Secondo la legge feudale i Baroni di Pampa avrebbero dovuto pagare ai re di Arkanar solo dodici pud di argento puro all’anno. Così di solito tutti i nuovi re, subito dopo essere saliti al trono, si facevano venire in mente di reclutare un esercito e di marciare contro il Castello di Bau, residenza dei Baroni. Ma le mura del castello erano inespugnabili e i Baroni combattevano valorosamente. E ogni anno, come sempre, il regno di Arkanar doveva accontentarsi di dodici pud di argento puro. Dopo il ritorno dell’esercito, i re sconfitti dovevano confermare un’altra volta i diritti dei Baroni, tra cui quello di mettersi le dita nel naso sedendo alla tavola del Re, di cacciare nelle regioni occidentali di Arkanar, e infine di chiamare i principi per nome senza aggiungere il loro titolo. La Foresta del Singhiozzo pullulava di segreti strani. Durante il giorno venivano inviati verso sud pesanti carichi di minerale d’argento. Ma di notte la strada era deserta, perché pochi osavano attraversarla alla luce delle stelle. Si raccontava che di notte l’uccello Siu cantasse sui rami dell’Albero Alto. Nessuno l’aveva mai visto, perché occhi umani non potevano vederlo, non essendo un uccello come tutti gli altri. Si raccontava che dai rami degli alberi balzassero a terra grandi ragni pelosi che in un attimo succhiavano il sangue dal collo dei cavalli. Si raccontava anche che nella foresta si aggirasse il mostruoso drago primigenio Pech, coperto di squame enormi. Ogni dodici anni generava un altro drago, e aveva dodici code sempre madide di sudore. Si diceva anche che qualcuno avesse visto con i suoi occhi, di giorno, la scrofa Y, maledetta da san Michele, che vagava gemendo e grugnendo lungo la strada. Era un feroce predatore, invulnerabile al ferro ma indifeso di fronte a un osso. Là, in quella foresta misteriosa, si poteva incontrare lo schiavo fuggiasco che portava tatuaggi neri tra le scapole. Era stupido e spietato, proprio come i ragni pelosi succhiasangue. Oppure si poteva incontrare il mago straziato da tre morti; raccoglieva sempre strani funghi per le sue pozioni, che potevano rendere invisibili o trasformare in vari animali o dare addirittura due ombre. Naturalmente tutti sapevano che il capo dei briganti Waga Koleso e la sua banda si aggiravano lungo la strada durante la notte, e anche i minatori fuggiti dai lavori forzati nelle miniere d’argento, con le mani nere e i volti pallidi e quasi trasparenti. Gli avvelenatori si radunavano là per i loro incontri notturni, e i cacciatori di frodo dei Baroni di Pampa si accampavano nelle radure per arrostire sul fuoco i bufali che avevano rubato. Nel cuore della foresta, dove il sottobosco cresceva più fitto che altrove, c’era un gigantesco albero dalla corteccia crepata dagli anni, sotto il quale si trovava una casupola di legno cadente circondata da una palizzata annerita. La casupola esisteva da tempo immemorabile. La porta era sempre chiusa. Idoli scolpiti in tronchi interi si rizzavano ancora accanto ai gradini di legno fradicio. Chiunque poteva testimoniare che si trattava del punto più pericoloso di tutta la Foresta del Singhiozzo. Ogni dodici anni il vecchio Pech veniva lì per dare alla luce il suo piccolo. Poi scavava sotto la catapecchia per morire, contaminandone le fondamenta con il suo nero veleno. Se mai il veleno fosse arrivato alla superficie sarebbe stata la fine del mondo. La gente raccontava anche che, nelle notti senza luna, gli idoli si staccavano dal terreno e camminavano verso la strada facendo segnali misteriosi. E che a volte una luce diabolica splendeva dalle finestre vuote della casupola da cui provenivano rumori soffocati, e dal camino usciva del fumo. Non molto tempo prima Kukisch, l’idiota del villaggio di Dolce Puzzo, conosciuto anche come Mucchio di Letame, si era imbattuto nella casupola e, da quello stupido che era, aveva guardato da una finestra. Era ritornato completamente pazzo, e dopo aver recuperato quel poco di senno che possedeva raccontò di aver visto all’interno un uomo seduto a un tavolaccio di legno che beveva da una botticella. La mascella gli arrivava fin quasi al petto, e aveva la pelle tutta butterata. Naturalmente era san Michele in persona, com’era prima dell’illuminazione: puttaniere, ubriacone e bestemmiatore. Solo chi non conosce la paura poteva guardarlo. Dalle finestre usciva un odore dolciastro e ombre strane svolazzavano tra gli alberi. La gente veniva da ogni dove per ascoltare il racconto dell’idiota. La storia ebbe termine quando infine arrivarono gli Sturmovik, che gli slogarono le braccia e gli fecero far fagotto. Ma naturalmente non si poté far tacere le voci che circolavano a proposito della casupola, che da allora fu conosciuta da tutti come «Il Covo dell’Ubriaco». Rumata si fece largo tra le fitte felci giganti e arrivò alla porta del Covo dell’Ubriaco. Legò il cavallo a uno degli idoli. Nella casupola c’era la luce accesa, e la porta, fissata a un cardine solo, era aperta. Padre Kabani, tutto arruffato, era seduto a tavola. All’interno stagnava un odore penetrante di grappa; sul tavolo, tra ossa rosicchiate e bietole bollite, c’era una grande brocca di terracotta. «Buonasera, Padre Kabani» disse Rumata superando la soglia. «Benvenuto» rispose lui con una voce che sembrava il suono di un corno da caccia. Il gentiluomo si avvicinò al tavolo facendo tintinnare gli speroni, vi posò i guanti e guardò un’altra volta Padre Kabani, che sedeva immobile tenendosi la mascella. Le sopracciglia pelose e grigie gli cadevano sulle guance come ciuffi d’erba su un burrone. Quando espirava, l’aria usciva sibilando dalle narici pelose. Puzzava di alcol mal digerito. «L’ho inventata io!» disse d’un tratto, inaspettatamente. Con grande sforzo, sollevò il sopracciglio destro e guardò cupamente Rumata. «Io! E per cosa?» Tolse la mano da sotto la mascella, gesticolando all’impazzata con il dito villoso. «E nonostante tutto sono un buono a niente! Io l’ho inventata… Eppure sono un buono a niente, eh? E vero, è vero, un fallimento. Nessuno inventa nulla, nessuno ha idee veramente nuove, ma… Oh, al diavolo tutto!» Rumata si slacciò la cintura, si tolse il fez e le due spade. «Su, su» disse piano. «La scatola!» ansimò Padre Kabani. Poi tacque, muovendo le guance in modo strano. Senza distogliere lo sguardo dal vecchio, Rumata posò sulla panca i piedi nei loro stivali polverosi e si sedette. Mise le spade sul tavolo. «La scatola…» ripeté Padre Kabani. «Diciamo sempre di averla inventata noi. Ma in realtà tutto era stato pensato molto prima. Qualcuno l’ha inventato molto tempo fa, l’ha messo in una scatola, ha fatto un buco nella scatola e poi ha lasciato perdere… Forse è andato a dormire… E poi che cosa succede? Poi arriva Padre Kabani, chiude gli occhi e mette la mano nel buco». Si guardò la mano. «Ah! Inventata! Sono stato io a escogitare questa cosa! E se non ci credete siete degli stupidi. Infilo la mano… Uno! Cosa ci trovo? Filo spinato! A che serve? Contro i lupi, naturalmente. Magnifico! Ci infilo di nuovo la mano… Due! Che cosa ci trovo? Un oggetto concepito molto abilmente, un cosiddetto tritacarne. A che serve? Per macinare finemente la carne. Magnifico! Infilo dentro la mano per la terza volta… Tre! Che cos’è? Combustibile. A che serve? Per far bruciare la legna umida, eh?» Padre Kabani tacque di nuovo e si irrigidì, come se qualcuno lo avesse afferrato per la collottola. Rumata prese in mano la brocca, vi guardò dentro e poi si versò qualche goccia sul dorso della mano. Il liquido era viola e puzzava di alcol da poco. Si asciugò accuratamente con il fazzoletto di pizzo. Sulla stoffa rimasero macchie unte. La testa arruffata di Padre Kabani toccò il tavolo. Improvvisamente, si rialzò. «Chiunque sia stato a mettere quella roba nella scatola sapeva a che cosa serviva. Filo spinato contro i lupi? Sono stato io a farlo, stupido che sono. Usano il filo spinato per circondare i pozzi e le miniere! Così i prigionieri politici non possono scappare. Ma non farò il loro gioco! Anch’io sono un nemico, per lo Stato. Ma me l’hanno chiesto? Certo che sì! Filo spinato, eh? Certo, filo spinato, che altro. Contro i lupi, eh? Contro i lupi… Eccellente… Magnifico! Usiamolo per circondare i pozzi e le miniere! Don Reba in persona, primo ministro, li ha aiutati a fare le recinzioni. E ha anche requisito il mio tritacarne. È un cervellone! Magnifico! E adesso fa la carne macinata nella Torre della Gioia… Con gli esseri umani… Fa miracoli, durante gli interrogatori, dicono…» «So tutto» pensò Rumata. «So tutto. So come hai gridato, durante il tuo colloquio privato con Don Reba, come hai strisciato ai suoi piedi, implorando, basta, basta, confesserò. Ma era già troppo tardi. Il tuo tritacarne era già in funzione…» Padre Kabani afferrò la brocca e la portò alle labbra, sorbendo la brodaglia tossica e grugnendo come la scrofa Y. Poi s’appoggiò rumorosamente sul tavolo, infilandosi in bocca una bietola lessata. Sulle guance larghe gli scorrevano le lacrime. «Già, combustibile!» disse, ritrovando la voce. «Da usare come esca per il fuoco, e per un paio di giochetti. Ma che combustibile è, caro mio, se si può bere? Mescolalo alla birra, e vedi come aumenta il prezzo! Ma no, non te lo darò! Me lo berrò tutto io! E come lo bevo! Giorno e notte. Sono tutto gonfio. E va sempre peggio. L’altro giorno mi sono guardato allo specchio. Don Rumata, non ci crederebbe: mi sono spaventato. Ho guardato meglio… Che il buon Dio mi protegga! Che cosa è rimasto di Padre Kabani? Un mostro marino, un polipo, pieno di macchie colorate, rosse e blu… Dicono che il combustibile sia stato inventato per fare dei bei giochi con il fuoco…» Il vecchio sputò sul pavimento, sfregandovi poi sopra la scarpa. Improvvisamente chiese: «Che giorno è oggi?» «La vigilia di Kata il Giusto». «E perché non c’è il sole?» «Perché è notte». «Di nuovo» disse dolorosamente Padre Kabani, cadendo con il viso nelle bietole. Rumata restò a guardarlo per un po’, fischiettando piano tra i denti. Poi si alzò e andò verso il portico retrostante. In uno stambugio tra mucchi di bietole e di segatura brillavano i tubi di vetro del distillatore di Padre Kabani. Era la creazione stupefacente di un ingegnere nato e di un maestro vetraio. Il giovane girò due volte intorno alla macchina diabolica, poi, al buio, afferrò un pezzo di ferro e cominciò a colpire a casaccio, senza mirare a niente in particolare. Si sentì il rumore dei vetri rotti, del metallo e dei liquidi che sgorgavano. L’odore di alcol fermentato pervase la stanzetta. Mentre Rumata andava ad accendere la luce, i vetri rotti scricchiolarono sotto i suoi piedi. Nell’angolo c’era una grossa cassaforte che conteneva un sintetizzatore Mida. La liberò dai detriti, compose la combinazione e l’aprì. Anche con la luce elettrica, il sintetizzatore faceva uno strano effetto in mezzo ai rifiuti. Rumata prese una manciata di segatura e la gettò nell’alimentatore. Subito la macchina cominciò a ronzare, e l’indicatore si regolò automaticamente. Con la punta dello stivale, l’uomo spinse un secchio arrugginito sotto l’apertura del sintetizzatore. E in un batter d’occhio caddero nel secchio ammaccato, tintinnando, ducati d’oro, le monete con il profilo aristocratico di Pitz Sesto, Re di Arkanar. Rumata adagiò il vecchio su un pagliericcio scricchiolante, gli tolse le scarpe, lo voltò sul fianco destro e lo coprì con la pelliccia spelacchiata di un animale morto da chissà quanto. Ogni tanto Padre Kabani si svegliava. Non riusciva a muoversi né a pensare. Così si limitava a recitare qualche verso di una romanza proibita. «Son come purpureo fior nella tua cara manina…» Infine cadde in un sonno profondo. Rumata sgombrò il tavolo, pulì il pavimento e anche l’unica finestra che c’era, annerita dalla sporcizia accumulatasi durante gli esperimenti di chimica che Padre Kabani conduceva sul davanzale. Dietro la stufa in sfacelo trovò una bottiglia di alcol, che rovesciò in un buco. Poi diede da bere al suo cavallo, gli diede l’avena che aveva nella bisaccia, si lavò le mani e il viso e si sedette ad aspettare. Fissava la fiammella della lampada a olio. Da sei anni conduceva quella strana doppia vita, e ormai sembrava essersi abituato. Solo qualche volta, come per esempio in quel momento, gli sembrava improvvisamente che dietro la bestialità organizzata, il culto deprimente dei Grigi, non ci fosse nulla. Gli sembrava che davanti ai suoi occhi si stesse svolgendo una strana azione teatrale, con lui, Rumata, nel ruolo di protagonista. E in qualunque momento, dopo una battuta particolarmente felice, sarebbe potuto scrosciare l’applauso, e gli esperti, gli amanti dell’arte dell’Istituto di Storia Sperimentale, avrebbero gridato entusiasti dai loro palchi: «Bravo, Anton, grande! Fantastico! Bravo, Toshka!» Si guardò intorno. Non c’era nessun teatro, solo i muri umidi e ammuffiti di tronchi rozzamente sbozzati, anneriti dal fumo della lampada. Fuori, il cavallo nitriva piano, battendo lo zoccolo sul terreno. Gradualmente sentì avvicinarsi un sibilo. Era così familiare, lo conosceva così bene e da tanto tempo che quasi gli si riempirono gli occhi di lacrime. Era un suono inaspettato, in quel luogo dimenticato da Dio. Rumata ascoltava attentamente, con la bocca semiaperta. Improvvisamente la vibrazione cessò; la fiammella nella lampada cominciò a vacillare, poi si stabilizzò di nuovo. Rumata stava per alzarsi dalla panca quando Don Kondor emerse dal buio della notte, entrando a grandi passi nella stanza. Don Kondor era Giudice Supremo e Custode del Gran Sigillo della Repubblica Mercantile di Soan, Vicepresidente della Conferenza dei Dodici Negoziatori e Cavaliere dell’Ordine Imperiale della Giusta Pietà. Rumata balzò in piedi, allontanando la panca con un calcio. Avrebbe voluto abbracciare l’amico e baciarlo sulle guance, ma si inginocchiò come prescritto dall’etichetta, e gli speroni tintinnarono solennemente; fece un gesto semicircolare con la mano, dal cuore al fianco destro, e chinò la testa così velocemente che il mento quasi sparì nella sciarpa. Don Kondor si levò il berretto di velluto ornato da una piuma e l’agitò brevemente in direzione di Don Rumata, come per scacciare una mosca. Poi gettò il berretto sul tavolo e slacciò la fibbia del mantello, che gli cadde dalle spalle mentre lui sedeva sulla panca e allungava le gambe. Teneva la sinistra sul fianco, e con la destra stringeva l’impugnatura della spada cesellata, che con la punta bucava il pavimento di legno ammuffito. Era piuttosto piccolo, snello; gli occhi grandi e un po’ sporgenti spiccavano nel viso pallido. I capelli neri erano fermati sulla fronte da un cerchietto d’oro massiccio con una pietra verde al centro, come quello di Rumata. «È solo, Don Rumata?» chiese frettolosamente. «Sì, signore» rispose lui, depresso. Improvvisamente rimbombò la voce di Padre Kabani. «Nobile Don Reba! Una iena, ecco cos’è lei!» Kondor non gli prestò attenzione. Non si voltò neppure. «Sono venuto in elicottero» disse. «Speriamo che nessuno l’abbia vista». «Una leggenda in più o in meno, che differenza fa?» chiese Kondor, come infastidito. «È che non ho tempo di viaggiare a cavallo. Che è successo a Budach? Sono preoccupato. Vuole sedersi, Don Rumata, per favore? Così mi fa venire il torcicollo». Obbediente, Rumata si sedette sulla panca. «Budach è scomparso» disse. «L’ho aspettato in Piazza delle Spade Pesanti. È venuto solo un vagabondo guercio che mi ha dato la parola d’ordine e una borsa piena di libri. Ho aspettato altre due ore, poi ho interpellato Don Hug, che mi ha detto di aver portato Budach fino al confine. Budach era insieme a un nobile, un uomo di fiducia, dato che aveva perso tutto a carte con Don Hug e si era venduto a lui anima e corpo. Dunque Budach dev’essere da qualche parte ad Arkanar. È tutto quello che so». «Non è molto, direi» osservò Kondor. «Ma la faccenda di Budach non è poi così importante. Se è ancora vivo, lo troverò e lo tirerò fuori dal suo buco. Davvero, non c’è nessun problema. Ma non è questo che volevo discutere con lei. Ancora una volta devo attirare la sua attenzione sul fatto che la situazione, ad Arkanar, sta oltrepassando i limiti della teoria basilare…» Kondor arricciò il naso. «No, no, ascolti» disse Rumata con decisione. «Ho la sensazione di non poter riuscire a farmi capire davvero, per radio? E ad Arkanar va tutto a rotoli! Sembra che Don Reba stia intenzionalmente scagliando il Grigiore contro gli scienziati. Chiunque si elevi anche solo di poco al di sopra del livello medio Grigio mette in pericolo la propria vita. Mi ascolti, Don Kondor! Queste non sono impressioni vaghe, emotive, sono fatti! Basta essere intelligenti e istruiti, avere qualche dubbio, dire qualcosa fuori dal comune. Forse anche solo rifiutare un bicchiere di vino può essere pericoloso. Qualunque garzone di droghiere ti può picchiare a sangue. Centinaia, migliaia di persone vengono denunciate. Vengono catturate dagli Sturmovik e appese nude a testa in giù per le strade. Soltanto ieri nella mia strada hanno ucciso un vecchio a calci: qualcuno aveva detto che sapeva leggere e scrivere. Lo hanno preso a calci per due ore, quei porci bavosi…» Rumata tacque un momento per riprendersi e finì, calmo: «Per concludere, non ci vorrà molto perché ad Arkanar non resti più una sola persona intelligente. Proprio come nel possedimento del Sacro Ordine dopo il massacro di Barkan». Kondor fissò Rumata con gli occhi scuri, stringendo le labbra. «Non mi piace quello che le sta succedendo, Anton» disse. «Ci sono molte cose che non piacciono neppure a me, Aleksandr Vassilevic» rispose Rumata. «Per esempio non mi va il fatto che abbiamo le mani legate, il modo in cui abbiamo affrontato il problema. Non mi va che l’abbiamo definito ‘il problema della procedura incruenta’. Perché per quanto mi riguarda questo equivale a una giustificazione scientifica dell’inerzia! Conosco tutti i vostri argomenti. E ho approfondito le nostre teorie. Ma in simili situazioni le teorie non funzionano, quando gli esseri umani sono attaccati da bestie feroci con i metodi tipici della dittatura più ottusa. Tutto sta andando a pezzi, a rotoli. A cosa ci servono le ricchezze e la conoscenza? E sempre troppo tardi». «Anton» lo interruppe Kondor «si calmi. Le credo, quando dice che la situazione di Arkanar è critica. Ma sono anche convinto che non potrebbe proporre una sola soluzione costruttiva». «È vero. Non posso proporre soluzioni concrete. Ma mi è sempre più difficile controllarmi di fronte alla crescente corruzione fisica e morale». «Anton, su questo pianeta siamo ormai in duecentocinquanta. Dobbiamo mantenere il massimo autocontrollo, ed è difficile per tutti. I più esperti di noi vivono qui da ventidue anni. Siamo venuti solo come osservatori e nient’altro. E proibito intervenire, in qualunque modo. Immagini un vero e proprio divieto di intervento. Non avremmo il diritto di salvare Budach neanche se lo vedessimo massacrare sotto i nostri occhi». «Non c’è bisogno che mi parli come se fossi un bambino». «Ma lei è impaziente come un bambino. E qui dovrà dimostrare molta pazienza». Rumata rise amaramente. «E mentre noi esercitiamo la pazienza e aspettiamo» disse «impegnati a discutere continuamente su come comportarci, queste belve attaccano la gente tutti i giorni, in ogni momento». «Anton, nell’universo esistono migliaia di altri pianeti che non abbiamo ancora visitato, dove la storia segue il suo corso». «Ma noi è qui che siamo venuti!» «Sì. Non per dar sfogo alla nostra legittima ira, ma piuttosto per aiutare queste creature. Se è inadatto al suo compito, allora se ne vada! Torni a casa! Dopotutto non è un ragazzino, sapeva già cosa l’aspettava». Rumata non rispose. Il viso di Kondor si distese; durante quelle ultime parole sembrava invecchiato di molti anni. Lentamente andò all’altra estremità del tavolo, prese la sua spada e se la portò dietro come un bastone. Poi scosse la testa tristemente, impercettibilmente; soltanto il naso sembrava essersi mosso. «Posso capire» disse. «Anch’io ci sono passato. A volte questa sensazione d’impotenza, la mia inanità, mi sembravano la cosa più orribile. Uomini dal carattere più debole sono addirittura impazziti e sono stati rimandati indietro a curarsi. Ho impiegato quindici anni per capire qual è la cosa più terribile. È il perdere la propria umanità, Anton, indurirsi l’anima trascinandola nel fango. Qui noi siamo dèi, e dobbiamo essere più saggi degli dèi che questi uomini si sono creati a loro immagine. Ma la nostra strada corre sull’orlo dell’abisso. Un passo falso e cadi nel pantano, e per tutta la vita non riuscirai a ripulirti. Nella Storia della discesa, Goran di Irukan ha scritto: ‘Quando Dio discese dai Cieli ed emerse dalle paludi di Pitan per mostrarsi al Suo popolo, ecco, i Suoi piedi erano coperti di fango’«. «Non molto tempo fa Goran è stato mandato al rogo per quella frase» osservò Rumata cupamente. «E vero, l’hanno bruciato vivo. Ma sono cose che non ci riguardano. Sono qui da quindici anni. Non vedo più la Terra neppure in sogno. Qualche tempo fa, rovistando fra vecchie carte, ho trovato la foto di una donna, e non sono riuscito a ricordare chi fosse. Qualche volta sono sopraffatto dall’orrore, perché in realtà non sono più un membro dell’Istituto ma un esponente delle istituzioni locali, il giudice supremo della Repubblica Mercantile. Per me è questa la cosa più terribile: adeguarsi al proprio ruolo. Dentro di noi l’animale selvaggio lotta con il comunardo. E mentre tutti incitano l’animale il comunardo è solo… La Terra è lontana mille anni e mille parsec». Tacque. Si accarezzò le ginocchia. «Così è, Anton» riprese dopo un po’, con maggiore decisione. «Quindi restiamo comunardi!» «Non capisce» pensò Anton-Rumata. «E perché dovrebbe, in fondo? È fortunato. Non conosce il Terrore Grigio o Don Reba. Tutto quel che ha visto su questo pianeta negli ultimi quindici anni rientra nel modello della teoria di base. E se gli parlo della dittatura, degli Sturmovik Grigi, della militanza sempre più aggressiva della borghesia, mi accusa di fare giochi di parole: ‘Non giocate con la terminologia, Anton! In questo campo la confusione genera risultati pericolosi!’ E completamente incapace di capire che il livello medio di bestialità medievale corrisponde al buon tempo andato, su Arkanar. Per lui Don Reba è un altro Richelieu, un politico astuto e lungimirante che difende l’assolutismo dagli eccessi del feudalesimo. Sono l’unico su questo pianeta a vedere l’ombra terribile che si staglia su tutto. Ma non riesco a capire da dove venga quest’ombra, e perché. E come posso convincerlo, quando gli leggo in volto che preferirebbe rimandarmi sulla Terra per farmi curare?» «Come sta il nobile Synda?» chiese. Kondor smise di scrutarlo, mormorando: «Benissimo, grazie». Poi aggiunse: «Dobbiamo finalmente affrontare il fatto che né lei, né io, né nessuno di noi vedrà mai il risultato del nostro lavoro. Noi non siamo fisici, ma storici. La nostra unità di misura non è il secondo, è il secolo. E qui non abbiamo il compito di seminare, ma solo di preparare il terreno. E quegli emissari della Terra, quei… fanatici che arrivano di tanto in tanto… Preferirei che andassero all’inferno, quegli zelanti…» Rumata fece un sorriso di circostanza, e si aggiustò senza motivo gli stivali. Zelanti. Proprio. Dieci anni prima Stepàn Orlovskij, alias Don Kapada, comandante delle truppe dei balestrieri di Sua Altezza Imperiale, aveva ordinato ai suoi uomini di tirare sui soldati dell’Imperatore mentre torturavano pubblicamente diciotto streghe estoriane. Aveva ucciso di sua mano il giudice supremo imperiale e due dei suoi assistenti, ma alla fine era stato trucidato dalle lance della guardia del corpo imperiale. Agonizzante, aveva incitato gli spettatori della tortura: «Ricordate che siete esseri umani! Difendetevi, uccideteli, non abbiate paura di loro!» Ma la sua voce era stata sopraffatta dalle urla della folla inferocita, che gridava: «Bruciate le streghe! Bruciatele vive!» E quasi contemporaneamente Karl Rosenblum, uno degli storici più eminenti, studioso delle rivolte contadine in Francia e in Germania, alias Pani-Pas, mercante di lane, aveva fomentato un’insurrezione tra i contadini muriani. Aveva assalito e conquistato due città, ed era stato ucciso da una freccia alla schiena mentre tentava di fermare il saccheggio. Salvato da un elicottero, era ancora vivo ma non poteva parlare. I suoi grandi occhi azzurri esprimevano ancora dolore e meraviglia, e le lacrime gli scorrevano sulle guance esangui… E, poco prima dell’arrivo di Rumata sul pianeta, il cospiratore più potente, confidente del Tiranno di Kaisan (alias Geremia Duranoce, specialista di riforme sulla Terra), con una congiura di palazzo aveva preso il potere e tentato di instaurare l’Età dell’Oro nel giro di due mesi. Aveva rifiutato decisamente di rispondere alle proteste dei paesi vicini e della Terra, si era guadagnato la dubbia reputazione di pazzo, aveva stroncato otto tentativi di restaurazione. Alla fine era stato catturato da un commando dell’Istituto che lo aveva portato con un sottomarino in una base vicino al Polo Sud. «Pensi un po’!» disse Rumata sottovoce. «E i terrestri credono ancora oggi che i nostri fisici si occupino dei problemi più complessi…» Kondor si alzò di scatto. «Ah, finalmente» mormorò. Dall’esterno proveniva un nitrito rabbioso e disperato, un rumore di zoccoli che scalpitavano e l’imprecare energico di una voce dal forte accento irukano. Un uomo entrò nella stanza. Era Don Hug, primo gentiluomo della camera di Sua Signoria il Duca di Irukan. Era robusto e rubizzo, con i baffetti arricciati e un sorriso che andava da un orecchio all’altro. Sotto i riccioli ramati della parrucca brillavano due occhietti allegri. Ancora una volta Rumata avrebbe voluto obbedire all’impulso di abbracciare il nuovo arrivato: Pashka, il suo amico d’infanzia. Ma Don Hug assunse subito un atteggiamento formale, il suo viso esibì il fastidioso sorriso mellifluo richiesto dall’etichetta. Si inchinò svelto, premendo il cappello sul petto e arricciando le labbra. Rumata guardò furtivamente Aleksandr Vassilevic. Aleksandr Vassilevic era scomparso, al suo posto c’era Don Kondor, Giudice Supremo e Guardasigilli, con le gambe allungate, la sinistra appoggiata sul fianco e la destra che stringeva l’elsa della spada cesellata. «È molto in ritardo, Don Hug» disse con tono sgradevole. «Vi chiedo umilmente perdono!» esclamò l’altro, avvicinandosi subito al tavolo. «Lo giuro sui reumatismi del Duca, è tutta colpa di circostanze imprevedibili e sfortunate! Sono stato fermato quattro volte dalle pattuglie di Sua Altezza il Re di Arkanar, e ho dovuto battermi due volte contro dei briganti». Sollevò la mano sinistra, con un movimento elegante, per mostrare il braccio bendato e insanguinato. «A proposito, signore, di chi è l’elicottero dietro la capanna?» «È mio» rispose seccamente Don Kondor. «Io non ho tempo da perdere ad azzuffarmi per strada». Don Hug sorrise amabilmente e si sedette a cavalcioni sulla panca. «In altre parole, signori, siamo costretti ad ammettere che il nostro dottor Budach è scomparso misteriosamente da qualche parte tra il confine irukano e la Piazza delle Spade Pesanti…» Padre Kabani si mosse. Si voltò nel sonno, e senza svegliarsi bofonchiò: «Don Reba…» «Lasciate a me Budach» disse Rumata in tono disperato «e malgrado tutto, per favore, cercate di capirmi…» Capitolo II Rumata si svegliò di soprassalto. Aprì gli occhi. Era ormai giorno. Per strada, proprio sotto le sue finestre, si sentiva litigare. Qualcuno, probabilmente un soldato, gridava: «Maledetto pezzente! Guarda che schifo! Te lo faccio pulire con la lingua! Zitto! Giuro sulla gobba di san Michele che mi stai facendo uscire dai gangheri!» Buongiorno, pensò Rumata. Un’altra voce, rauca e grossolana, brontolava: «Farebbe meglio a guardare dove mette i piedi, in questa strada schifosa! Stamattina è piovuto, ma chi lo sa quando hanno spazzato l’ultima volta». «Mi vuoi insegnare dove devo guardare, eh?» «Farebbe meglio a lasciarmi andare, signore. Vuole lasciarmi stare?» «Oh, certo, certo…» Rumata sentì il rumore di uno schiaffo. Era evidentemente il secondo. Il primo lo aveva svegliato. «Farebbe meglio a smetterla, signore». Una voce familiare. Chi poteva essere? Probabilmente Don Tameo. «Oggi gli farò riprendere quel ronzino decrepito. Chissà se imparerò mai a distinguere un buon cavallo da uno scadente. Ma del resto in famiglia non siamo famosi come esperti di cavalli. Cammelli, sì. Siamo esperti in cammelli da combattimento. Meno male che qui su Arkanar non ce n’è quasi». Rumata si stiracchiò fino a sentir scricchiolare le giunture. Cercò a tastoni il cordone di seta appeso alla testiera del letto e lo tirò. Sentì suonare i campanelli, ma non giunse nessuno. «Sarà senz’altro alla finestra a guardare la rissa. Potrei anche alzarmi e vestirmi da solo, ma darei solo adito a nuove chiacchiere». Ascoltò di nuovo l’ondata di insulti che proveniva dalla strada. L’inventiva della lingua umana! Che entropia, che contrasto con l’incertezza della conoscenza! «Ultimamente» continuò a riflettere Rumata «tra le truppe della guardia sono comparsi dei sapientoni che affermano che in battaglia si può usare una spada soltanto, mentre la seconda dev’essere riservata ai duelli per strada… E Don Reba presta troppa attenzione alle loro preoccupazioni nella gaia Arkanar. A proposito, Don Tameo non è uno di loro. È troppo vigliacco, il nostro caro Don Tameo, un incorreggibile politicante da salotto. È proprio orribile cominciare la giornata con Don Tameo…» Si sedette sul letto, intrecciando le mani intorno alle ginocchia sotto il copriletto ricamato. Era in preda alla più nera disperazione. «Si può meditare in eterno, continuare a riflettere sulla nostra impotenza di fronte alle circostanze… Sulla Terra non mi sognerei neppure di farlo. Sulla Terra siamo uomini forti e decisi, con un addestramento psicologico specializzato, pronti a tutto. E abbiamo i nervi saldi. Per esempio riusciamo a non distogliere lo sguardo quando un poveraccio viene picchiato o giustiziato. Siamo capaci di esercitare un autocontrollo tremendo. Riusciamo ad ascoltare imperturbabili le chiacchiere incessanti degli idioti più abbietti. Abbiamo anche dimenticato come si fa a disgustarsi. Non ci importa se ci mettono davanti un piatto da cui ha mangiato un cane, o pulito con uno straccio sporco. Non siamo attori meravigliosi? Non ricadiamo nella nostra lingua madre o in un’altra lingua terrestre neppure in sogno. Dopotutto disponiamo di un’arma invincibile: la basilare teoria del feudalesimo, elaborata nei nostri uffici tranquilli e nei nostri attrezzati laboratori, basata su ricerche assidue e discussioni serie… «È un vero peccato che Don Reba non abbia la minima cognizione di quella teoria. Ed è un vero peccato che il nostro addestramento psicologico si stacchi come pelle bruciata, che dobbiamo adattarci a condizioni estreme, che siamo costretti a subire un costante ricondizionamento mentale: stringi i denti e ricordati che sei un dio in incognito. Ricordati che loro non sanno quello che fanno, e che sono quasi del tutto esenti da colpe. E per questo devi avere la pazienza di Giobbe, pazienza, pazienza… E intanto le fonti dell’umanesimo dentro di noi, che sulla Terra sembravano inesauribili, qui si stanno inaridendo a velocità impressionante. San Michele! Sulla Terra non eravamo forse dei veri umanisti, degli amanti dell’umanità? L’umanesimo era il sostegno della nostra natura, e nel nostro rispetto per l’essere umano, nel nostro amore per l’uomo eravamo quasi giunti all’antropocentrismo… Adesso scopriamo con orrore che in realtà non amavamo l’umanità, ma i nostri compagni, i compatrioti che ci assomigliavano… E sempre più spesso ci scopriamo a chiederci: ma questi sono proprio esseri umani? Saranno capaci di diventarlo, con il tempo? E poi ricordiamo persone come Kyra, Budach, Arata il gobbo, o l’insuperabile barone Pampa, e ci vergogniamo… Ma anche questo è altrettanto raro e spiacevole. Peggio ancora, non ci aiuta affatto… «Va bene, basta così. Non al mattino presto, almeno. E al diavolo Don Tameo! Dentro di me si sono accumulati tanti problemi, e in questo isolamento non ho modo di sbarazzarmene. Ecco cosa mi blocca: l’isolamento, la solitudine. Come ci chiamavano, a casa? Giovani forti, sicuri e decisi. Avremmo mai immaginato di dover affrontare tanta solitudine? Nessuno ci crederebbe. Anton, amico mio, che ti succede? A ovest, a neanche tre ore di volo, vive Aleksandr Vassilevic, un brav’uomo con un gran cervello. A est c’è Pashka, un amico allegro e fedele, che è stato a scuola con te per sette anni. E solo una depressione temporanea, Anton. Peccato, credevamo che avessi più resistenza. Che sgobbata. Ti capiamo. Perché non torni a casa, sulla Terra, ti ristabilisci occupandoti di ricerca teoretica, poi si vedrà… «Si dà il caso che Aleksandr Vassilevic sia un dogmatico per eccellenza. Quindi, se la teoria di base non contempla i Grigi… In quindici anni di studio, amico mio, non ho mai incontrato una simile eccezione’. In altre parole, le orde Grigie esistono solo nella mia mente. E se me le sono sognate significa solo che sono stressato, sotto pressione, che dovrebbero rimandarmi a casa per un periodo di riposo. ‘Va bene, Don Rumata, prometto di occuparmene personalmente e di comunicarvi le mie scoperte. Nel frattempo, però, datemi la vostra parola: niente eccessi, prego…’ E Pavel, che da ragazzo chiamavo Pashka. Adesso è uno scienziato, un esperto, un cervello pieno di informazioni. Si è immerso completamente nello studio della storia dei due pianeti e ha verificato che il fenomeno delle orde Grigie rappresenta l’avvenimento più comune nel rapporto tra la borghesia e i Baroni. ‘A proposito, tra qualche giorno verrò a trovarti. Per essere sincero, l’incidente con Budach mi secca, quando ci penso. Grazie! E questo è tutto! Mi occuperò io del caso Budach, anche se non servo più a molto. «L’eruditissimo Dottor Budach. Un grande medico, cittadino leale di Irukan. Il Duca stava per farlo cavaliere, poi ha cambiato idea e ha preferito incarcerarlo. Il migliore specialista di droghe curative dell’Impero. Autore del ramosissimo trattato Delle erbe e altre piante, quali enti in forme misteriose causino dolore, gioia o tranquillità; dei fluidi salivari e corporali dei rettili ragni e della scrofa Y, che dispone di dette caratteristiche e di molte altre ancora. Indubbiamente una persona non comune, un vero gigante dello spirito, allo stesso tempo umanista ed eccentrico squattrinato. I suoi beni consistevano solo in un sacco pieno di libri. Ma chi ha bisogno di te, dottor Budach, in questo paese di ignoranti che nuotano in un pantano sanguinoso fatto di cospirazioni e avidità? «Supponiamo che tu sia vivo e sia ad Arkanar. Naturalmente potresti essere caduto in mano ai barbari, che devastano periodicamente le campagne scendendo dalle loro piazzeforti sulla montagna. Se così fosse, allora Don Kondor potrebbe mettersi in contatto con il nostro amico Schumtuletidovodus, specialista di storia delle culture antiche, che adesso lavora come sciamano alle dipendenze di un capitano che ha un nome di quarantacinque sillabe. Ma se fossi ad Arkanar, prima di tutto potresti essere stato catturato dalle bande di Waga Koleso. No, non proprio catturato; ti avrebbero solo portato con loro perché avrebbero considerato il tuo compagno il miglior bottino, il tuo amico, un signore che si è giocato tutto il patrimonio. In ogni caso non ti ucciderebbero. Waga Koleso è troppo avido. «C’è un’altra possibilità, però. Che qualche idiota di barone ti prenda tra le sue grinfie. Senza cattive intenzioni, solo per noia, per una forma perversa di ospitalità. Solo perché vorrebbe bere in compagnia di un nobile ospite. Allora manda le sue schiere a rapirti e a portarti al castello. In questo caso saresti in un salone puzzolente ad aspettare che i signori siano ubriachi fradici e se ne vadano. Però non ti succederebbe niente di male. «Ma sarebbe tutt’altra faccenda con il resto dell’esercito contadino di Don Ksi e Pert Posvonocnik, che dopo la sconfitta si è ritirato nel villaggio di Nido Marcio, segretamente finanziato dal nostro Don Reba, nel caso dovessero sorgere complicazioni nei suoi rapporti con i baroni. Quei contadini non hanno pietà: meglio non pensarci. E poi c’è Don Satarina, un aristocratico bisbetico di centodue anni, naturalmente arteriosclerotico. Mantiene il feudo di famiglia con i duchi di Irukan e cattura, quando ne ha la forza, tutto quello che attraversa il confine irukano. È molto pericoloso. Quando subisce l’influenza di Cholezistit, è capace di dare ordini dalle conseguenze così disastrose che le chiese non fanno neppure in tempo a recuperare i cadaveri. «Poi c’è l’ultima possibilità. Non è la più pericolosa, ma è la più probabile: la Pattuglia Grigia di Don Reba. Gli Sturmovik. Saresti potuto incappare in loro per puro caso, Budach, e allora la tua unica speranza sarebbe stata il sangue freddo e la prontezza di spirito del tuo compagno. Ma se Don Reba fosse interessato a te personalmente? Perché Don Reba a volte dimostra interessi inaspettati… Le sue spie potrebbero avergli riferito che stavi attraversando Arkanar, e allora ecco che invia uno dei suoi distaccamenti al comando di un ufficiale Grigio pieno di zelo. E questo cretino di basso rango potrebbe essere responsabile della tua fine nella Torre della Gioia…» Rumata diede un altro strattone al cordone, spazientito. La porta della camera si aprì con un cigolio fastidioso e nella stanza entrò un ragazzo magro, dall’aria cupa. Si chiamava Uno, e la sua vita avrebbe potuto essere un buon tema per una ballata. Si fermò sulla soglia, inchinandosi profondamente, strisciando le scarpe rotte sul pavimento, e andò verso il letto. Sul comodino appoggiò un vassoio con alcune lettere, una tazza di caffè e una crosta di pane raffermo, che doveva servire a rafforzare e a pulire i denti. Rumata lo guardò, molto infastidito. «Di’ un po’, quand’è che olierai quella porta cigolante?» Il ragazzo taceva e fissava il pavimento. Rumata scostò il copriletto, si sedette sulla sponda del letto e prese il vassoio. «Ti sei lavato stamattina?» chiese. Il ragazzo si appoggiava prima su un piede e poi sull’altro; senza rispondere, cominciò a girare per la stanza e a raccattare i vestiti sparsi sul pavimento. «Mi sembra di averti chiesto se stamattina ti sei lavato» ripeté Rumata, aprendo la prima lettera. «L’acqua non lava i peccati» brontolò sottovoce il ragazzo. «Quindi perché mai dovrei lavarmi, signore?» «Che cosa ti ho detto dei microbi?» disse Rumata. Il ragazzo appoggiò con cura i pantaloni verdi del padrone sullo schienale di una poltrona, poi con il pollice vi segnò sopra un cerchio per scacciare gli spiriti maligni. «Stanotte ho pregato tre volte. Cosa potevo fare di più?» «Imbecille» disse Rumata, e cominciò a leggere la lettera. Era di Donna Okana, una dama di compagnia, l’ultima favorita di Don Reba. Lo invitava ad andarla a trovare quella sera stessa, e si firmava «languente d’amore per voi». Il poscritto diceva molto chiaramente che cosa si aspettava da quell’appuntamento galante. Rumata era imbarazzato. Arrossì. Guardando di sfuggita il ragazzo, mormorò: «Questo è davvero troppo…» Doveva pensarci su. Andarci sarebbe stato disgustoso, ma non andarci sarebbe stato stupido. Donna Okana era molto ben informata. Sorseggiò velocemente il caffè e mise in bocca la crosta. L’altra busta era di carta pesante. Il sigillo era manomesso. Ovviamente la lettera era stata aperta. Veniva da Don Ripat, un tenente della Milizia Grigia arrivista e senza scrupoli, che si informava della sua preziosa salute, esprimeva la propria fiducia nella vittoria imminente della Causa e pregava di posporre il pagamento del suo debito citando varie circostanze sfavorevoli. «Va bene, va bene» brontolò Rumata mettendo da parte la lettera per riprendere in mano la busta ed esaminarla con grande interesse. Oh sì, ora lavoravano più accuratamente, molto più accuratamente. La terza lettera conteneva la sfida a duello a causa di una certa Donna Pifa, ma lo scrivente era pronto a ritirarla se Don Rumata avesse testimoniato che lui non aveva avanzato pretese su Donna Pifa. La lettera era tipica: il testo base scritto da un calligrafo, e gli spazi bianchi riempiti goffamente e con molti errori con i nomi e le date del caso. Rumata posò la lettera, grattandosi le punture di zanzara sulla mano sinistra. «Voglio lavarmi. Porta il necessario!» Il ragazzo sparì dietro la porta, ritornando subito con una tinozza di legno che trascinò sul pavimento, traballando per lo sforzo. Poi uscì di nuovo dalla stanza e tornò trascinando una vasca vuota e un grosso mestolo. Rumata balzò in piedi, si tolse la camicia da notte fittamente ricamata e slacciò rumorosamente le spade appese sopra la testiera del letto. Il ragazzo si rannicchiò cautamente dietro una sedia. Rumata si esercitò all’attacco e alla difesa per dieci minuti, poi appoggiò le spade al muro, si chinò sulla vasca vuota e ordinò l’acqua. Era piuttosto scomodo lavarsi senza sapone, ma ormai ci si era abituato. Il ragazzo raccoglieva l’acqua con il mestolo e gliela versava sulla schiena, sul collo e sulla testa, un mestolo dopo l’altro. Intanto continuava a borbottare: «Dappertutto ci si comporta come esseri umani, sciocchezze raffinate. Ma quando mai? Lavarsi con due secchi d’acqua? Tutti i giorni un asciugamano pulito… E Sua Signoria che tutte le mattine salta su nudo con due spade senza neanche aver detto le preghiere…» Rumata si asciugò vigorosamente dicendo in tono autoritario: «Sono un membro della corte, non un barone pidocchioso. Un cortigiano dev’essere sempre pulito e profumato». «Sua Altezza Reale non vi annusa mica» ribatté il ragazzo. «Lo sanno tutti che Sua Altezza prega giorno e notte per noi peccatori. E Don Reba, lui non si lava mai. Lo so per certo, me lo ha detto il suo servo». «Va bene, non preoccuparti» disse Rumata infilando la maglietta. Il ragazzo lo guardava costernato. Ormai da un po’ di tempo ad Arkanar circolavano pettegolezzi tra i servi. Ma Rumata non poteva farci niente. Mentre si infilava le mutande, il ragazzo si voltò dall’altra parte, muovendo le labbra come per scacciare lo spirito dell’impurità. «Eppure non sarebbe una cattiva idea lanciare la moda della biancheria intima» pensò Rumata. Ma quelle innovazioni avrebbero potuto essere introdotte solo con la collaborazione del gentil sesso. E anche in questo campo, sfortunatamente, lui si distingueva per la sua raffinatezza. Piuttosto scomoda per una spia. Per un cavaliere, un uomo di mondo, un conoscitore dell’etichetta di corte, un dignitario inviato nelle province e abituato a battersi in duello e a sistemare faccende di cuore, avere una ventina di amanti era una cosa normale. Rumata si sforzava eroicamente di mantenersi all’altezza di quell’aspettativa, e metà dei membri della sua agenzia, invece di dedicarsi a cose più serie, faceva circolare le voci più spregevoli. Voci intese a destare l’invidia e la delizia dei giovani della Guardia di Arkanar. Si diceva che decine di signore estasiate o deluse a cui Rumata faceva visita fino a tarda notte, recitando loro poesie (terza notte di veglia: un bacio fraterno sulla guancia della signora, un gran salto oltre la balaustra del balcone, giù in braccio al comandante delle sentinelle che lo conosceva bene), decine di signore cercavano di superarsi l’un l’altra con i racconti della classe straordinaria di quel vero cavaliere. Rumata sfruttava per i suoi scopi la vanità di quelle donne, depravate fino a essere ripugnanti. Comunque non si parlava mai della sua biancheria. Con i fazzoletti era stato tutto molto più semplice. In occasione di un ballo aveva estratto dal taschino del panciotto un elegante fazzoletto di seta con cui si era asciugato ostentatamente le labbra. Al ballo successivo i giovani si asciugavano il viso sudato con scampoli di tessuti piccoli o grandi, di vari colori, vivacemente ricamati e con tanto di monogramma. Nel giro di un mese gli uomini facevano a gara nel drappeggiarsi vere e proprie lenzuola attorno al braccio, trascinandone elegantemente gli angoli dietro di sé… Rumata infilò i calzoni verdi e una camicia bianca di batista con il colletto alto appena stirato. «Visitatori?» chiese al ragazzo. «Il barbiere la sta aspettando. E due signori l’attendono in salotto. Don Tameo e Don Sera. Mi hanno detto di portare del vino, e stanno litigando. Aspettano di fare colazione con lei». «Va’ a chiamare il barbiere. Di’ a quei signori che li raggiungerò presto. Ma non essere sgarbato con loro, hai capito? Devi essere sempre gentile». La prima colazione non fu molto ricca, e lasciò spazio a un pranzo. Insieme a un arrosto molto speziato furono servite orecchie di cane marinate nell’aceto. Bevvero vino frizzante irukano, il denso rosso estoriano e il bianco di Soan. Disossando abilmente un cosciotto d’agnello con l’aiuto di due pugnali, Don Tameo cominciò a lagnarsi della temerarietà crescente delle classi inferiori. «Presenterò le mie lamentele alle più alte autorità» dichiarò. «La nobiltà pretende che alla plebe, ai contadini e agli artigiani venga proibito di farsi vedere nei luoghi pubblici e per la strada. Che usino i cortili e le entrate di servizio. Nelle situazioni in cui la loro presenza non può essere evitata, ad esempio per la consegna di pane, carne o vino, devono avere un permesso speciale del ministro per la Protezione della Corona». «Che mente geniale!» Don Sera parlava con entusiasmo, spruzzando generosamente l’aria di saliva e sugo. «Ma ieri sera, a Corte…» E riferì l’ultimo pettegolezzo. La favorita attuale di Don Reba, la dama di compagnia Okana, aveva calpestato sbadatamente il piede malato del Re. Sua Altezza era andato su tutte le furie e si era rivolto a Don Reba, ordinandogli di assegnare alla malcapitata una punizione esemplare. Al che Don Reba, senza batter ciglio, aveva risposto: «Sarà fatto, Vostra Altezza! Stanotte stessa». «Ho riso tanto che mi si sono staccati due bottoni dal panciotto!» disse Don Sera, piegando indietro la testa. «Protoplasma» pensò Rumata. «Sei solo un blocco di protoplasma che mangia, digerisce e si riproduce». «In effetti, signori» disse «Don Reba è davvero un uomo molto, molto intelligente». «Oh! Oh!» esclamò Don Sera. «Di più: è un luminare, un intellettuale!» «Uno statista eccezionale» aggiunse Don Tameo enfaticamente, con aria da esperto. «È davvero strano» continuò Don Rumata sorridendo affabilmente «se si pensa a quello che si diceva di lui soltanto un anno fa. Don Tameo, ricordate le vostre battute di spirito sulle sue gambe storte?» Don Tameo stava sorbendo un bicchierino di vino irukano, che gli andò quasi di traverso. «Non ricordo affatto» brontolò. «E poi non sono un uomo spiritoso…» «Se ne ricorderà senz’altro» disse Don Sera, scuotendo la testa in segno di rimprovero. «È così, infatti!» insistette Rumata. «Era presente anche lei, Don Sera! Ricordo benissimo come rideva alle battute di Don Tameo. Rideva così di gusto che le si scucì qualcosa dal vestito». Don Sera divenne di tutti i colori e cominciò a presentare giustificazioni prolisse e confuse. Stava mentendo spudoratamente. Don Tameo si era incupito e immusonito. Si dedicò con tutto il cuore al vino estoriano e siccome, a sentir lui, aveva cominciato da due settimane e fino a quel momento non era stato capace di smettere, quando alla fine si alzarono da tavola dovette essere sorretto dagli altri due. Era una piacevole giornata di sole. Il popolino si radunava nelle strade a bocca aperta come se ci fosse qualcosa da vedere. I ragazzini fischiettavano e schiamazzavano tirandosi manciate di fango. Massaie con la cuffietta stavano alla finestra. Servette impudenti lanciavano languide occhiate. L’umore di Don Sera cominciò a migliorare. Fece lo sgambetto a un contadino, sbellicandosi poi nel vederlo cadere nel fango. Don Tameo si accorse improvvisamente di aver indossato il fez con lo stemma delle due spade al contrario. Gridò: «Ferma!» e si tolse il fez reggendolo alto, tentando di girargli di sotto con il corpo. Dal panciotto di Don Sera si staccò di nuovo qualcosa. Rumata fermò una graziosa servetta che passava, le tirò un orecchio e la pregò di rimettere a posto il copricapo di Don Tameo. Intorno ai tre signori si radunò una folla di curiosi, tutti molto solleciti nel dare consigli alla ragazza, che era diventata rossa come un pomodoro. Intanto dal panciotto di Don Sera continuavano a staccarsi bottoni, fibbie e gancetti. Alla fine, quando ripresero il cammino, Don Tameo ritrovò il coraggio di aggiungere una precisazione alla sua lamentela, mettendo in rilievo la necessità di tenere a debita distanza dai contadini e dal popolino gli esseri graziosi di sesso femminile. Un carro carico di vasi di terracotta ostruiva la strada. Don Sera sguainò entrambe le spade, dichiarando che era sconveniente e indegno di tre signori dover girare attorno a dei vasi, e che era sua intenzione aprirsi la via attraversando il carro. Ma mentre cercava di prendere la mira e di distinguere dove finiva il muro e dove cominciavano i vasi, Rumata afferrò i raggi delle due ruote e girò il carro, sgomberando la strada. La folla, che aveva assistito a bocca aperta, cominciò ad applaudire. I signori stavano per riprendere il cammino quando da una finestra al secondo piano apparve la testa brizzolata di un mercante, il quale tuonava contro la maleducazione dei cortigiani, a cui la nostra aquila illuminata, Don Reba, avrebbe posto presto rimedio. Naturalmente dovettero fermarsi un’altra volta per trasferire tutto il carico di vasi dentro la finestra. Rumata salvò l’ultimo vaso, vi gettò dentro due monete d’oro con l’effigie di Pitz Sesto e lo diede al proprietario del carro, allibito. «Quanto gli ha dato?» chiese poi Don Tameo. «Oh, non vale la pena di parlarne» rispose Rumata con un’alzata di spalle. «Due monete d’oro». «Per la gobba di san Michele!» esclamò Don Tameo. «Ha davvero del denaro! Se vuole le vendo il mio stallone camalariano!» «Preferirei vincerlo agli astragali» disse Rumata. «Splendido!» gridò Don Sera fermandosi di colpo. «Giochiamo!» «Qui?» chiese Rumata. «Perché no?» disse Don Sera. «Non vedo perché tre gentiluomini non possano giocare agli astragali quando ne hanno voglia». Improvvisamente Don Tameo inciampò, cadendo lungo disteso nel fango. Anche Don Sera incespicò e cadde. «Oh, mi ero completamente dimenticato che ora dovremmo entrare in servizio» disse. Rumata li rimise in piedi e li guidò tenendoli per il braccio, fermandosi davanti al palazzo tetro di Don Satarina. «Dovremmo fargli visita» suggerì. «Certo, non vedo perché tre gentiluomini non potrebbero andare a trovare Don Satarina» disse Don Sera. Don Tameo aprì gli occhi. «Essendo al servizio del re» riuscì a dire faticosamente «dovremmo tutti guardare al futuro. D-d-don Satarina… è già una reliquia del passato. Avanti, signori! Devo andare al mio posto di guardia!» «Avanti!» ripeté Don Rumata. Don Tameo lasciò cadere la testa sul petto; non si svegliò per un bel pezzo. Don Sera, facendo schioccare le dita, cominciò a parlare dei suoi innumerevoli successi amorosi. Giunsero a palazzo ed entrarono nella sala delle guardie, dove Rumata, con grande sollievo, fece sdraiare Don Tameo su una panca. Don Sera, da parte sua, si sedette, allontanò con un gesto superbo del braccio una pila di ordinanze firmate dal re e dichiarò che era venuto finalmente il momento di bersi un bicchiere di vino irukano ghiacciato. Disse che il padrone doveva portarne un barilotto e che quelle zitelle (indicando gli ufficiali in servizio che stavano giocando a carte a un altro tavolo) avrebbero dovuto unirsi a loro per un brindisi. Venne il comandante della guardia. Squadrò Don Tameo e Don Sera. E dopo che Don Sera gli ebbe chiesto: «Perché tutti i fiori appassiscono al riparo della mia solitudine?» concluse che non avrebbe avuto senso mandarli al loro posto di guardia in simili condizioni; sarebbe stato meglio lasciarli per un po’ dov’erano. Rumata gli vinse una moneta d’oro e scambiò con lui quattro chiacchiere sui nuovi nastri delle uniformi e sul modo migliore di lucidare le spade. Poco dopo disse che pensava di fare una visita a Don Satarina, che a quanto si sapeva possedeva delle ottime mole, e sembrò visibilmente contrariato quando gli dissero che il nobiluomo aveva ormai perso la ragione. Raccontavano che un mese prima aveva rilasciato tutti i prigionieri, sciolto la guardia del corpo e ceduto allo Stato il suo ricco arsenale di strumenti di tortura. A centodue anni il vecchio aveva dichiarato che ormai aveva intenzione di dedicarsi alle opere buone. Probabilmente non gli restava molto da vivere. Rumata prese commiato dal comandante e lasciò il palazzo, andando verso il porto. Doveva evitare le pozzanghere e saltare i solchi delle ruote pieni di acqua verdastra. Senza scomporsi allontanava dal suo cammino i fannulloni, ammiccava alle ragazze, che sembravano molto colpite dal suo aspetto, si inchinava alle dame che si facevano trasportare nelle portantine, salutava i conoscenti e ignorava deliberatamente gli Sturmovik Grigi. Fece una piccola deviazione per dare un’occhiata alla Scuola dei Patrioti. La scuola era stata fondata due anni prima con il patrocinio di Don Reba in persona per addestrare i figli dei mercanti e dei piccolo-borghesi destinati a diventare sottufficiali o a entrare nell’amministrazione. Era un edificio di pietra senza colonne o fregi. Le mura spesse avevano finestre piccole e simili a feritoie, e ai lati dell’entrata si ergevano due torri semicircolari. Se necessario, là dentro ci si poteva asserragliare. Rumata salì una stretta scala a chiocciola che portava al secondo piano, facendo risuonare gli speroni. Per andare verso l’ufficio del procuratore della scuola doveva passare davanti alle aule, da cui proveniva un ronzio monotono e uniforme di risposte date all’unisono. «Com’è il nostro Re?» «Una persona sublime» «Come sono i nostri ministri?» «Leali e senza spirito di contraddizione» «E Dio, il Creatore, parlò: ‘Io maledico’. Ed Egli maledì…» «‘…e al secondo squillo di tromba, formate una catena a due a due, tenendovi pronti a colpire con le lance…’ ‘…nel caso in cui il torturato perda i sensi, sospendere immediatamente la tortura…’««La scuola» rifletté Rumata. «La culla del sapere, il perno della cultura…» Senza bussare, aprì la porta ed entrò nell’ufficio. Era buio e freddo come una cripta. Dietro una scrivania enorme ingombra di carte e di sferze si alzò in piedi un uomo alto e ossuto. Era calvo e con gli occhi infossati, e sull’uniforme grigia coperta di passamanerie intrecciate spiccavano le spalline del ministro della Sicurezza. Era il procuratore della Scuola dei Patrioti, l’esimio Padre Kin, sadico, assassino e monaco allo stesso tempo, autore del Trattato sulle denunce, che aveva attirato l’attenzione di Don Reba. «Ebbene, come vanno le cose qui?» chiese Don Rumata con un sorriso benevolo. «Le persone istruite… Certe le ammazziamo, altre le indottriniamo, eh?» Padre Kin sorrise beffardo. «Non tutte le persone istruite sono da considerare nemiche della corona» disse. «I nemici del Re sono i sognatori, gli scettici e i dissidenti sleali! Mentre qui il nostro compito…» «Certo, certo» disse Rumata. «Le credo. State scrivendo qualcosa di nuovo? Ho letto il suo trattato. Un’opera utile, ma stupida. Come può pensare certe cose? Da dove le vengono certe idee? Non è un bene, mio caro… procuratore, vero?» «Io non mi vanto di essere particolarmente intelligente o saggio» rispose Padre Kin con dignità. «Il mio unico scopo è il bene dello Stato. Non abbiamo bisogno di persone intelligenti. Abbiamo bisogno di lealtà. E…» «Basta, basta. Va bene. Allora, state scrivendo qualcosa di nuovo?» «Ho intenzione di presentare al ministro un abbozzo del Nuovo Stato perché lo esamini. Ho preso a modello il Regno del Sacro Ordine». Rumata era allibito. «Intendete farci diventare tutti monaci?» Padre Kin giunse le mani e si chinò in avanti. «Permettetemi, signore, di spiegarmi meglio» disse con tono emozionato, leccandosi le labbra. «Il nocciolo della questione consiste in qualcos’altro. Il nodo della questione consiste nei pilastri fondamentali del Nuovo Stato. E questi sono relativamente semplici. Sono solo tre: fede cieca nell’infallibilità della legge; sottomissione assoluta alla legge; e infine, controllo costante di tutti su tutti». «E a che scopo?» «Come, a che scopo?» «Dimenticavo che lei è uno stupido. Va bene, le credo. Volevo dire un’altra cosa. Che cos’era?… Ah, sì. Domani arriveranno due nuovi insegnanti: Padre Tarra, che si diletta di cosmografia, e Frate Nanin, anche lui un uomo notevole, specialista di storia. Sono della mia gente ed è necessario trattarli come si deve. Questa è la mia garanzia». Gettò sul tavolo un sacchetto tintinnante. «Per lei, cinque monete d’oro. Tutto chiaro?» «Sì, signore» disse umilmente Padre Kin. Rumata si guardò attorno sbadigliando. «Tanto per capirci» disse «per qualche motivo queste persone erano molto care a mio padre che mi ha incaricato di rendere loro la vita piacevole. Per favore, sa spiegarmi, lei che è un uomo colto, perché un gentiluomo dovrebbe essere così appassionato di scienza?» «Forse qualche loro merito particolare?» azzardò Padre Kin. «Ma che dice?» ribatté astiosamente Rumata. «E perché no, in fondo? Già, perché no? Magari una figlia graziosa, o una sorella… Avete del vino? Naturalmente no…» Padre Kin si strinse nelle spalle. Rumata prese una delle carte che coprivano il tavolo e la mise brevemente davanti alla luce. «Sfondamento della linea difensiva» lesse ad alta voce. «Oh, che ingegnosi!» Lasciò cadere per terra il foglio e si alzò. «Si assicuri che i vostri pupilli non disturbino quei due. Fra non molto li verrò a trovare, e se vengo a sapere che…» Mise il pugno sotto il naso di Padre Kin. «Certo, certo, non si preoccupi» squittì ossequioso Padre Kin. Rumata fece un cenno brusco e uscì, graffiando il pavimento con gli speroni. Sul Viale della Gratitudine Inesprimibile entrò nella bottega di un armaiolo e comprò degli anelli nuovi per il fodero della spada. Provò alcuni pugnali, li lanciò contro il muro e li soppesò in mano, ma non ne scelse nessuno. Poi si sedette a chiacchierare con il proprietario, un certo Padre Hauk. Padre Hauk aveva occhi miti e malinconici e mani bianche macchiate d’inchiostro. Rumata rimase a discutere per un po’ sui meriti della poesia di Zuren, ascoltò un commento interessante sulla lirica Pesa sulla mia anima come le foglie morte e chiese qualche novità da leggere. Prima di andarsene sospirò sull’autore di quei versi incredibilmente tristi e recitò «Essere o non essere» tradotto in irukano. «San Michele!» esclamò con foga Padre Hauk. «Chi ha scritto questi versi?» «Io» rispose Rumata, e uscì. Andò fino alla Taverna della Grigia Gioia, bevve un bicchiere di vino bianco di Irukan, diede un buffetto sulla guancia alla moglie dell’oste e rovesciò abilmente con un colpo di spada il tavolo di una spia governativa che lo fissava con occhi vuoti. Poi andò in un angolo del locale, dove sedeva uno straccione che portava un calamaio appeso al collo. «Buongiorno, Frate Nanin. Quante petizioni hai scritto, oggi?» Frate Nanin sorrise imbarazzato, mostrando i denti cariati. «Oggi la gente scrive poche petizioni, signore. Certi pensano che chiedere favori sia inutile. E altri confidano che comunque otterranno quello che vogliono senza doverlo chiedere». Rumata si chinò e gli sussurrò all’orecchio che aveva sistemato tutto alla Scuola dei Patrioti. «Qui ci sono due monete d’oro per te. Lavati e mettiti addosso qualcosa di decente. E sta’ attento a quello che dici, almeno per i primi giorni. Padre Kin, il procuratore, è un uomo pericoloso». «Gli leggerò il mio Trattato sulle voci» disse allegramente Frate Nanin. «Vi ringrazio, signore». «Lo faccio in ricordo del mio caro padre. Ma dimmi, dove posso trovare Padre Tarra?» Improvvisamente Frate Nanin smise di sorridere e storse la bocca in un tic nervoso. «Ieri qui c’è stata una rissa, e Padre Tarra ha bevuto un po’ troppo e ha menato le mani. E poi, lo sapete, ha i capelli rossi… Gli hanno spezzato le costole». «Che pasticcio!» disse Rumata. «Ma perché bevete tanto?» «A volte è difficile controllarsi» disse tristemente Frate Nanin. «È vero. Be’, ecco qui qualche moneta d’oro. Cerca di curarlo, d’accordo?» Frate Nanin si inchinò e cercò di baciare la mano di Rumata, ma lui si ritrasse subito. «Andiamo» disse. «Ti ho visto fare scherzi migliori ai tuoi bei tempi, Frate Nanin. Addio!» Gli odori del porto erano unici. Puzza di salmastro e di alghe marce, di spezie, catrame, fumo e carne in scatola andata a male. Dalle taverne proveniva l’odore nauseabondo del pesce bollito e della birra fatta in casa inacidita. L’aria afosa risuonava di imprecazioni in lingue diverse. Sui moli, nelle stradine tra i magazzini e intorno alle taverne, migliaia di persone tiravano e spingevano. Lupi di mare in disarmo, mercanti gonfi, pescatori dalle facce cupe, mercanti di schiavi, protettori, puttane dal trucco pesante, soldati ubriachi, uomini indefinibili armati fino ai denti, e vagabondi folli e cenciosi con braccialetti d’oro ai polsi. Erano tutti eccitati e nervosi. Don Reba aveva emesso un decreto, tre giorni prima, che vietava a tutte le navi e alle barche di salpare. Gli Sturmovik Grigi si aggiravano sulle banchine, giocherellando con le loro mannaie arrugginite. Sputavano in acqua e lanciavano sguardi impertinenti e maligni alla folla. Su alcune delle navi ormeggiate lì vicino si vedevano gruppi di cinque o sei uomini imbacuccati o impellicciati, muscolosi, dalla pelle rossa. Erano i mercenari barbari. Non valevano molto nei combattimenti corpo a corpo, ma quando si trovavano a distanza, come ora, le loro cerbottane e le loro frecce avvelenate erano temibili. Più lontano si scorgevano gli alberi delle galee da guerra della flotta reale, simili a dita minacciose puntate verso il cielo. Ogni tanto facevano partire lingue di fuoco che saettavano sulla superficie dell’acqua fino alle banchine; le scie d’olio venivano incendiate per intimidire la folla in attesa. Rumata oltrepassò la dogana, dove i capitani delle navi aspettavano inutilmente di fronte alle porte chiuse, cercando di ottenere il permesso di partire. Si fece largo tra la folla indaffarata a barattare e a commerciare tutto quello che poteva: dalle schiave alle perle nere, dai narcotici ai ragni ammaestrati. Proseguì sulle banchine, guardando di sfuggita cadaveri in divisa da marinai esposti al pubblico. Si erano già gonfiati, sotto il sole cocente. Fece un largo giro intorno a una piazza ingombra di rifiuti di ogni genere, entrando infine in una stradina laterale puzzolente. Lì c’era più calma. Prostitute mezze nude erano distese sulla soglia di bettole di infimo ordine; a un incrocio vide per terra un soldato ubriaco fradicio con il naso rotto e le tasche rivoltate. Individui dall’aria sinistra strisciavano guardinghi lungo i muri delle case. Era la prima volta che Rumata si recava da quelle parti. Sulle prime fu sorpreso dalla mancanza di reazioni che la sua presenza avrebbe dovuto suscitare. La gente che incrociava guardava oltre con occhi inespressivi o sembrava non vederlo; eppure tutti si spostavano per farlo passare. A un certo punto, svoltando un angolo e guardandosi indietro, vide una ventina di teste, maschili e femminili, calve e ricciolute, che istantaneamente sparivano dietro porte, finestre, recinti. Improvvisamente percepì l’atmosfera strana di quel rione ripugnante, un’atmosfera piena non tanto di ostilità o di pericoli quanto di un interesse avido e maligno. Aprì una porta con una spallata ed entrò in una taverna. Nella stanza buia un uomo sonnecchiava dietro il banco. Era molto vecchio, aveva la faccia di una mummia e il naso enorme. Non c’erano clienti. Rumata si avvicinò al banco e stava quasi per colpire il naso del vecchio con la punta delle dita quando si rese conto di colpo che l’uomo non stava affatto dormendo, ma l’osservava attentamente da dietro le palpebre semichiuse. Rumata gettò una moneta d’argento sul tavolo e gli occhi del vecchio si spalancarono come se avesse premuto un bottone. «Cosa desidera, signore?» chiese cerimoniosamente. «Qualcosa da mangiare? Da fiutare? Una ragazza?» «Non fare domande idiote. Sai bene perché sono qui». «Ma guarda! Non è il nobile Don Rumata?» gridò l’altro, come se fosse stato colto di sorpresa. «Sono qui seduto… E improvvisamente vedo un viso familiare…» Dopo il lungo discorso, l’uomo richiuse gli occhi. Rumata capì il messaggio: la via era libera. Girò intorno al banco, intrufolandosi in una porticina che dava nella stanza adiacente. La stanza era buia e affollata, permeata dell’odore penetrante della birra acida. In mezzo al locale, dietro un banco alto, stava in piedi un uomo di mezza età. Il suo viso rugoso era chino sopra un fascio di carte. In testa aveva un berretto nero, piatto. La luce fioca di una lampada a olio tremolava sul banco e illuminava appena i visi degli uomini seduti immobili lungo le pareti. Rumata usò le due spade a mo’ di bastone per cercare a tentoni una sedia vicino al muro. Si sedette. Lì vigevano leggi particolari e un’etichetta tutta speciale. Nessuno dei presenti prestò la minima attenzione al nuovo arrivato. Se qualcuno doveva entrare, ci si aspettava che lo facesse così; e se non fosse stato il modo giusto bastava strizzare l’occhio e la persona spariva. Si sarebbe potuto cercare ovunque senza trovarne la minima traccia… L’uomo dal viso grinzoso era intento a scribacchiare; le persone sedute lungo le pareti non si muovevano. Ogni tanto qualcuno sospirava. Sui muri correvano salamandre invisibili a caccia di mosche. Gli uomini che sedevano immobili lungo i muri erano i capi delle bande di briganti. Rumata ne aveva già riconosciuto qualcuno. Quei bruti ottusi non valevano niente. La loro psiche non era più complessa di quella di un bottegaio medio. Erano stupidi, violenti e abili nel maneggiare coltelli e bastoni. Però c’era l’uomo in piedi dietro al banco. Si chiamava Waga Koleso, ed era potentissimo. Non c’era rivale che potesse contestargli la posizione di capo di tutti i criminali del paese, dalle paludi di Pitan nella regione occidentale di Irukan sino ai confini marittimi della Repubblica mercantile di Soan. Era stato maledetto ed espulso da tutte e tre le chiese ufficiali dell’impero a causa della sua arroganza, perché sosteneva di essere il fratello minore del principe regnante. Giorno e notte disponeva di un esercito sempre pronto, forte di circa diecimila uomini; nei forzieri aveva qualche centinaio di migliaia di monete d’oro e i suoi agenti si erano infiltrati nel cuore dell’apparato amministrativo. Nell’arco degli ultimi vent’anni era stato giustiziato ufficialmente almeno quattro volte, sempre in presenza di una gran folla. Secondo un’altra versione ufficiale aveva languito contemporaneamente in tre delle carceri più oscure del regno. Comunque Don Reba aveva ripetutamente emesso decreti «in merito alla diffusione sovversiva di voci e dicerie da parte di nemici dello Stato e altri individui maligni riguardo certo Waga Koleso, che in realtà non esiste e perciò appartiene al regno della leggenda». Secondo altre informazioni, sempre Don Reba aveva convocato un certo numero di baroni che disponevano di truppe agguerrite promettendo cinquecento monete d’oro per il cadavere di Waga e settemila per Waga vivo. In quel periodo Rumata stesso aveva dovuto fare grandi sforzi e spendere molto denaro per mettersi in contatto con Koleso. Sentiva per lui una forte repulsione, ma quell’uomo poteva essere molto utile, addirittura indispensabile. Inoltre provava per lui un interesse di tipo scientifico, come inquietante esemplare per la sua collezione di mostri medievali, e come persona che, in apparenza, mancava totalmente di un passato. Finalmente Waga posò la penna, raddrizzò la schiena e disse con voce gracchiante: «Bene, figli miei. Duemilacinquecento monete d’oro in tre giorni. E solo millenovecentonovantasei per le spese. Cinquecentoquattro tondi d’oro in tre giorni. Non male, figlioli, non male…» Nessuno si mosse. Waga lasciò la sua postazione, si sedette in un angolo e si sfregò le mani energicamente. «Non è una notizia che vi fa fare salti di gioia, figlioli cari?» disse. «Sono tempi buoni per noi, anni fruttuosi… Ma dobbiamo lavorare sodo per guadagnarci il pane quotidiano. Davvero sodo! Il mio fratello maggiore, il Re di Arkanar, ha deciso di eliminare tutte le persone istruite del suo regno, e anche del mio. Be’, lui che è così saggio saprà bene perché lo fa. Dopotutto chi siamo noi per dubitare del suo giudizio? Non spetta a noi criticare le sue decisioni. D’altra parte noi possiamo, anzi dobbiamo, ricavare qualche vantaggio da queste decisioni. Poiché siamo sudditi fedeli dobbiamo servirlo, ma essendo solo sudditi notturni, non consegneremo nelle sue mani la nostra modesta parte di tali profitti. Lui naturalmente non se ne accorgerà, e quindi non si offenderà. Che c’è?» Nessuno si mosse. «Avevo avuto l’impressione che Piga, laggiù, stesse sospirando. È così, Piga, figlio mio?» Ci fu un po’ d’agitazione, come di qualcuno che si stesse dimenando sulla sedia, anche se nella stanza buia non si distingueva niente. Da un angolo si sentì tossire. «Non sospiravo, Waga» disse una voce roca. «Non lo farei mai…» «Appunto! Sta’ buono. Eccellente! Adesso trattenete il respiro e ascoltatemi con attenzione. Drizzate le orecchie, mettetevi al lavoro, e nessuno vi disturberà nel vostro difficile compito. Il mio fratello maggiore, Sua Altezza Reale, ha fatto sapere tramite il suo portavoce, Don Reba, di aver posto una taglia considerevole sulla testa di alcuni studiosi latitanti o desiderosi di fuggire. Dobbiamo consegnare queste teste nelle sue mani, per assecondare il Re. D’altro canto, però, alcuni di questi studiosi vogliono sottrarsi all’ira di mio fratello e sono disposti a ricompensare chi li assisterà in questo. Per spirito di compassione, per pietà e anche per evitare al mio fratello maggiore di portare il peso di troppe cure, aiuteremo queste persone. E se poi Sua Altezza Reale dovesse ancora avere bisogno di queste teste, potrà sempre riaverle da noi. A un buon prezzo. Molto conveniente…» Waga tacque e abbassò la testa. Improvvisamente le lacrime cominciarono a scorrere sulle sue guance: le lacrime lente di un vecchio. «Sto invecchiando» sospirò, cercando inutilmente di soffocare un singhiozzo. «Le mani mi tremano, le gambe non mi reggono e comincio a perdere la memoria. Avevo completamente dimenticato che, in mezzo a noi, dentro questa gabbia stretta e opprimente, langue un gentiluomo… Certo a lui non interessa ascoltare le nostre meschine questioni economiche. Ora vi lascio, vado a riposare. Ma intanto, figlioli, chiediamo al nobile signore di essere tanto gentile da perdonarci la svista…» Gemendo e brontolando si alzò in piedi, inarcandosi. Anche gli altri si alzarono in piedi e si inchinarono davanti a Rumata, ma nei loro volti si leggevano indecisione e timore. Rumata riusciva a sentire gli scricchiolii dei loro cervelli ottusi e primitivi che si sforzavano di interpretare le parole e i gesti del capo. Per lui invece era tutto chiarissimo. L’astuto vecchio avrebbe colto l’occasione, al momento giusto, per informare Don Reba della propria intenzione di unirsi, con le sue orde, al pogrom appena iniziato. Era il momento di impartire ordini concreti; stavano per essere divulgate le liste dei nomi, e ben presto avrebbero deciso il giorno e l’ora in cui sarebbe scattato il piano. A quel punto la presenza di Don Rumata era ritenuta, per usare un eufemismo, indesiderabile. Di conseguenza si suggeriva al nobiluomo di rivelare chiaramente il motivo della sua visita e poi di allontanarsi il più presto possibile. Che uomo sinistro! Che personaggio sgradevole! E cosa ci faceva in città, lui che non poteva sopportare la vita cittadina? «Hai ragione, caro Waga» disse Rumata. «Il tempo a mia disposizione è limitato. Ma sono io che devo chiederti scusa, perché ti disturbo per affarucci senza importanza». Rumata rimaneva seduto, mentre tutti gli altri stavano in piedi ad ascoltarlo. «Succede che io abbia bisogno di un tuo consiglio… Puoi sederti». Waga s’inchinò di nuovo e si sedette. «Questo è quanto sono venuto a dirti» continuò Rumata. «Tre giorni fa dovevo incontrare un mio amico, un gentiluomo di Irukan, in Piazza delle Spade Pesanti. Non ci siamo incontrati. E scomparso. Ma so con sicurezza che ha attraversato sano e salvo il confine irukano. Forse potresti sapere qualcosa di più sul suo destino». Per molto tempo Waga non rispose. I banditi continuavano a schiarirsi la gola, sospirando profondamente. Infine anche Waga si schiarì la gola. «No, signore» disse. «Non sappiamo niente di questa faccenda». Rumata si alzò immediatamente in piedi. «Grazie, amico mio» disse. Poi andò verso il banco in mezzo alla stanza e vi appoggiò un sacchetto di cuoio con dieci monete doro. «Lo lascio qui con la seguente richiesta: se doveste venire a conoscenza di qualcosa, per favore fatemelo sapere». Si toccò il berretto. «Addio». Appena prima di aprire la porta si fermò di nuovo, si voltò e disse con noncuranza: «Avete detto qualcosa a proposito di certi studiosi. Mi è venuta in mente una cosa. Ho la sensazione che il Re di Arkanar non riuscirà ad arrestare nessun vero topo di biblioteca, anche se dovesse provarci per un mese. E io devo fondare un’università nella capitale. Là ho fatto un voto, una volta, quando sono andato a farmi curare dalla peste. Perciò, se doveste catturare qualche topo di biblioteca, fatemelo sapere prima di avvertire Don Reba. Forse potrebbe farmi comodo per la mia università». «Vi costerà molto caro» l’avvertì Waga in tono mellifluo. «La merce è difficilmente reperibile». «Ma il mio onore è ancora più caro» sentenziò Rumata, uscendo. Capitolo III Sarebbe molto interessante» pensava Rumata «catturare questo Waga e portarlo sulla Terra. Tecnicamente, non sarebbe affatto difficile, tutt’altro. Ma cosa farebbe sulla Terra?» Cercò di immaginarlo. «Getta un peloso ragno gigante in una stanza illuminata con pareti lucide e aria condizionata profumata di pino o di brezza marina, e il ragno si appiattirà sul pavimento, storcerà i suoi occhietti malvagi e febbrili e striscerà lateralmente verso l’angolino più lontano. Che altro potrebbe fare? Poi si raggomitolerà scoprendo minacciosamente le mandibole velenose. Per prima cosa Waga cercherebbe la compagnia dei disadattati e degli emarginati. Ma sicuramente anche il contestatore più stupido della Terra sarebbe troppo puro per Waga, e quindi inadatto ai suoi scopi. Il vecchio deperirebbe. Forse si spegnerebbe addirittura. Ma chi può sapere com’è veramente? Ecco la vera difficoltà di tutta la questione. La psiche di questi mostri assomiglia a una foresta buia. Santo dio! È molto più complicato raccapezzarsi con loro che con le civiltà non umanoidi. Si possono spiegare tutte le loro azioni, ma è terribilmente difficile prevederle. Sì, c’è un’effettiva possibilità che Waga muoia di dispiacere. Forse però potrebbe anche guardarsi intorno, adattarsi in qualche modo, capire velocemente come funzionano le cose e poi vivere in una riserva naturale, come uno spirito dei boschi. È assolutamente improbabile che non abbia nemmeno una piccola passione insignificante, qualche interesse che qui è solo marginale ma che sulla Terra potrebbe diventare il centro della sua esistenza. Mi sembra che gli piacciano i gatti. Dicono che ne abbia un esercito nella Foresta del Singhiozzo, e che tenga appositamente un servo per prendersi cura di loro. E Waga gli dà uno stipendio malgrado la sua reputazione di vecchio avaro, anche se potrebbe costringerlo con lusinghe e minacce. Ma non riesco a immaginare che cosa potrebbe fare sulla Terra, con la sua incredibile avidità di potere!» Rumata si fermò davanti a una taverna. Stava per entrare quando si accorse che gli mancava un sacchetto di monete. Rimase sulla porta, perplesso. Non sarebbe mai riuscito ad abituarsi a queste cose, anche se non era la prima volta che accadeva. Si frugò nelle tasche per un bel po’. Aveva portato con sé tre sacchetti con dieci monete d’oro. Uno l’aveva dato a Padre Kin, il procuratore, e l’altro a Waga. Il terzo sacchetto era sparito. Le tasche erano vuote. Dalla gamba sinistra dei pantaloni erano stati tagliati via accuratamente tutti i fermagli d’oro, e gli mancava il pugnale che teneva appeso alla cintura. Improvvisamente notò poco lontano due Sturmovik che lo fissavano, sorridendo beffardi. Per quanto riguardava il membro e collaboratore dell’Istituto di Storia Sperimentale potevano andare all’inferno, ma il gentiluomo andò su tutte le furie. Per un attimo perse il controllo di sé. Andò verso di loro e sollevò la mano, che in qualche modo si era stretta spontaneamente a pugno. Evidentemente, anche il suo viso doveva aver cambiato espressione perché i due soldati rimasero impietriti e poi, terrorizzati, si rifugiarono nella taverna. Rumata era spaventato. Solo una volta, prima di allora, si era sentito così male, quando, all’epoca in cui era astronauta di riserva, aveva riconosciuto i primi sintomi della malaria. Nessuno riusciva a capire come mai la malattia si fosse manifestata così improvvisamente, e due ore più tardi era già guarito e dimesso con qualche parola buona e qualche battuta. Ma non era mai riuscito a dimenticare il trauma: lui che non era mai stato malato in vita sua, aveva avuto l’impressione che dentro il suo corpo qualcosa si stesse disgregando; si stesse gradualmente disfacendo e che lui non potesse controllarlo più. «Non volevo farlo» pensava, lì sulla porta della taverna. «Non mi sarebbe mai passato per la testa. Non avevano fatto niente di particolare, dopotutto… «Stavano là e ghignavano, scoprendo i denti… Ammetto che era un ghigno idiota, ma anch’io devo essere sembrato un po’ stupido a frugarmi nelle tasche in quel modo. Stavo per farli a pezzi! E se non fossero scappati li avrei uccisi!» Si ricordò di una recente scommessa: aveva preso un manichino protetto da una doppia corazza soaniana e lo aveva tagliato a metà dalla testa ai piedi con la spada. A quel pensiero un brivido gli percorse la schiena. Ora i due Grigi sarebbero potuti giacere a terra in una pozza di sangue, infilzati come maiali, mentre lui sarebbe rimasto lì con la spada in mano senza sapere che cosa fare… «Proprio un vero dio! Sei diventato una bestia!» Improvvisamente tutti i muscoli cominciarono a dolergli come se avesse fatto chissà quale sforzo fisico. «Su, su» si disse. Dopotutto, non era così terribile. Era tutto finito. Questione di un attimo. Come un lampo che sparisce immediatamente. «Malgrado tutto sono un essere umano, perciò dentro di me ci dev’essere anche una parte di bestialità. Sono i nervi. I nervi e la tensione degli ultimi giorni. La cosa peggiore, comunque, è la sensazione di un’ombra che si sta avvicinando. Non sai che cosa sia, a chi appartenga, ma continua ad avvicinarsi e non si può fermarla…» Quella sensazione di ineluttabilità pervadeva tutto. Si percepiva nel fatto che gli Sturmovik, che fino a poco tempo prima si nascondevano vigliaccamente nelle loro baracche, ora marciavano tronfi in mezzo alle strade, cosa permessa solo ai nobili. E nel fatto che dalla città erano scomparsi cantastorie, menestrelli, danzatori, acrobati. Nel fatto che i cittadini non cantavano più canzoni di argomento politico, erano diventati serissimi e sapevano sempre con certezza assoluta che cosa era bene per lo Stato. Nel fatto che il porto fosse stato chiuso improvvisamente e senza spiegazioni. Nel fatto che le «folle indignate» avessero distrutto tutte le botteghe dei rigattieri, gli unici luoghi in tutto il regno in cui fosse ancora possibile comprare o farsi prestare libri e manoscritti in tutte le lingue, anche quelle morte dei nativi che vivevano dall’altra parte del golfo. Nel fatto che il simbolo della città, la torre luminosa dell’Osservatorio, si ergesse nel cielo come un dente nero e cariato: era stata bruciata da «un’esplosione accidentale». Nel fatto che il consumo di alcol fosse quadruplicato in due anni. Nel fatto che i contadini vessati e terrorizzati si seppellissero nelle cantine dei loro tuguri e non osassero uscirne neppure per svolgere i più indispensabili lavori nei campi. E infine, nel fatto che quella vecchia poiana di Waga Koleso avesse trasferito in città il suo quartier generale. Evidentemente doveva aver fiutato qualche ricca possibilità di bottino. Da qualche parte all’interno del palazzo, negli appartamenti lussuosi in cui risiedeva il Re gottoso, il Re che negli ultimi vent’anni non aveva visto la luce del sole per paura del mondo esterno, il Re minorato che firmava una sentenza dopo l’altra mandando a morte le persone più onorate e generose… da qualche parte s’ingrossava un terribile bubbone che minacciava di scoppiare da un momento all’altro. Rumata incespicò nei resti di un melone spiaccicato e alzò lo sguardo. Era sul Viale della Gratitudine Inesprimibile, nel quartière dove si trovavano i negozi migliori, gli usurai e i gioiellieri. Ai lati della via si susseguivano case antiche, i marciapiedi erano ampi, la strada lastricata di granito. Di solito era frequentata dai gentiluomini e dai ricchi aristocratici della città, ma in quel momento avanzava verso di lui una folla compatta di povera gente. Cautamente si tennero tutti alla larga da Rumata. Qualcuno l’osservava con curiosità, molti si inchinavano profondamente a scanso di equivoci. Visi tondi e lustri si sporgevano dalle finestre dei piani alti come piccoli fari, emozionati e quasi paralizzati dalla curiosità. Più avanti si sentivano voci imperiose: «Ehi, laggiù! Muovetevi! Disperdetevi! Volete sbrigarvi? Forza!» La folla commentava: «State attenti a quelli là, sono i peggiori, sono posseduti dal diavolo. Sembrano persone perbene, tranquille, sembrano mercanti come tutti gli altri. Ma guardateli un po’ più da vicino: dentro hanno un veleno, un veleno amaro…» «Se lo è meritato, quel demonio… Io ci sono abituato, ma mi bruciano ancora gli occhi…» «Bruciateli, sì! Mi si apre il cuore: possiamo contare sui nostri ragazzi». «Non è stato troppo crudele? Dopotutto è un essere umano, una creatura di carne e sangue… Se uno sbaglia, be’, bisogna punirlo, chiarirgli le idee, ma perché…» «Basta con queste sciocchezze! E parla piano, amico. Qui non sei solo, vuoi tenerlo a mente? La gente ti ascolta». «Caro signore! È un materiale eccellente, un tessuto ottimo. Approfittatene, prima che rincari di nuovo… prima che gli agenti di Pakin arraffino tutto…» «E soprattutto, figliolo, non dubitare mai! Credi e basta, è la cosa più importante. Una volta che le autorità intervengono, puoi essere certo che sanno quello che fanno…» «È successo un’altra volta. Hanno picchiato a sangue qualche poveraccio». Rumata avrebbe voluto allontanarsi, girare alla larga dalla folla che arrivava, dalle grida. Ma non si voltò. Invece tirò indietro i capelli per scoprire la pietra incastonata nel cerchietto d’oro che portava intorno alla fronte. In realtà non era una pietra, ma la lente di una telecamera, e il cerchietto non era un ornamento ma una ricetrasmittente. Gli storici sulla Terra potevano vedere e sentire tutto quello che i duecentoquindici emissari vedevano e sentivano sui nove continenti del pianeta. E gli emissari erano obbligati a stare a sentire e a guardare. A testa alta, tenne le due spade orizzontali ai lati del corpo per allontanare la gente il più possibile e cominciò a camminare in mezzo alla strada. I curiosi si spostarono subito per lasciarlo passare. Quattro servitori dalle labbra tumide e pesantemente truccate trasportavano una portantina lucidissima. Dietro le tendine si intravedeva un viso freddo e bellissimo, con gli occhi semichiusi. Rumata si tolse il cappello con uno svolazzo e fece un inchino. Era Donna Okana, la favorita attuale dell’Aquila Illuminata, Don Reba. Accorgendosi di lui, la donna gli sorrise. I suoi occhi erano promettenti, appassionati. Almeno due dozzine di gentiluomini avrebbero dato qualunque cosa per quel sorriso. Un sorriso così era raro, in quei giorni, e non si comprava con l’oro. Rumata si fermò un momento, seguendo la portantina con lo sguardo. «Devo prendere una decisione» pensò. «Devo decidermi, finalmente». Rabbrividì al pensiero delle conseguenze. Ma doveva essere così!» Io devo… Adesso lo so, e poi non ho scelta, non c’è altro modo. Stanotte». Passò accanto alla bottega dell’armaiolo dove, quella mattina, aveva provato i pugnali e parlato di poesia. Si fermò. «Ecco di cosa si trattava. Questa volta è toccato a te, caro Padre Hauk…» La folla aveva già cominciato a disperdersi. La porta della bottega era stata scardinata, le vetrine infrante. Uno Sturmovik Grigio con l’aria da bullo era appoggiato allo stipite della porta, con le gambe incrociate. Un altro era acquattato contro il muro. Il vento spingeva dei fogli scritti e strappati lungo la via. Il bullo si mise un dito in bocca e lo succhiò per un po’, lo tirò fuori e l’esaminò con cura. Sanguinava. Poi si accorse di Rumata che lo fissava e disse con una voce roca e compiaciuta: «Quell’animale mordeva come un ossesso». Il secondo Sturmovik ridacchiò, pieno di zelo. Un ragazzino magro e pallido, insicuro e foruncoloso. Era ovviamente un novellino, un principiante. Un mostriciattolo, una piccola iena. «Che succede qui?» chiese Rumata. «Hanno scoperto un topo di biblioteca» disse nervosamente la piccola iena. Il bullo si rimise il dito in bocca senza scomporsi. «At-tenti!» ordinò Rumata. La piccola iena scattò in piedi e prese l’ascia. Il bullo rifletté un attimo, poi si mise più o meno sull’attenti. «Un topo di biblioteca? Di che tipo? Chi è?» s’informò Rumata. «Chi lo sa?» rispose il più giovane. «Ordini di Padre Zupik…» «L’hanno preso?» «Certo che l’hanno preso». «Magnifico» disse Rumata. Tutto sommato non era un gran guaio. C’era ancora tempo. «Il tempo è la cosa più importante. Un’ora può costare una vita, un giorno è inestimabile». «E dove l’avete portato? Nella Torre?» «Eh?» chiese il ragazzo distrattamente. «Ti sto chiedendo se adesso è nella Torre». Sul viso foruncoloso comparve un sorriso incerto. Il bullo rise sguaiatamente. Rumata si voltò. Sull’altro lato della strada il cadavere di Padre Hauk penzolava dall’architrave di una porta. Ciondolava come un sacco pieno di stracci. Qualche piccolo vagabondo lo stava a guardare a bocca aperta. «Di questi tempi non li mandano tutti nella Torre» disse la voce rauca del bullo dietro di lui. «Oggi si va per le spicce. Una corda al collo e buonanotte». La piccola iena riprese a ridacchiare. Rumata lo fulminò con lo sguardo e attraversò la strada. Il poeta triste aveva il viso annerito e irriconoscibile. Rumata abbassò gli occhi. Solo le sue mani avevano conservato l’aspetto familiare, le lunghe dita sottili macchiate d’inchiostro… Oggi nessuno si avventura più nella vita Sei preso per il collo. Qualcuno ha chiesto Un altra possibilità? Deboli e goffe Le sue mani fiacche cederanno. Chissà dov’è nascosto il cuore del polpo Chissà se ha un cuore… Rumata si voltò e se ne andò. «Povero Padre Hauk…» «Il polpo ha un cuore. E sappiamo dov’è. Ed è questa la cosa più terribile, amico mio muto e abbandonato. Sappiamo dov’è, ma non possiamo distruggerlo senza spargere il sangue di migliaia di persone spaventate, corrotte, acritiche, cieche. E sono in tanti, disperatamente tanti: gente misera, senza speranza, indurita da un lavoro incessante privo di ricompensa. Esseri umani abbrutiti che ancora non sono in grado di elevarsi sopra l’ideale dei pochi spiccioli. Troppo, troppo presto, in anticipo di un secolo si è diffusa ad Arkanar la peste Grigia, senza incontrare resistenza. Perciò resta da fare una cosa sola: salvare i pochi che possono essere ancora salvati. Budach, Tarra, Nanin, altri dieci o venti al massimo…» Ma solo al pensiero delle migliaia di altri, forse meno dotati ma comunque nobili e onesti, che erano condannati a perire, Rumata si sentì gelare, conscio della propria impotenza. A volte quella sensazione lo sommergeva al punto di oscurare la sua consapevolezza. Rumata vedeva davanti a sé schiere di soldati Grigi che gli voltavano la schiena, illuminati dai lampi delle armi da fuoco; il viso insignificante di Don Reba divorato vivo da mosche ripugnanti; la Torre della Gioia che crollava lentamente su se stessa e diventava un cumulo di macerie… Non sarebbe stato meraviglioso? Un’impresa straordinaria. Un intervento in grande stile. Ma dopo… sarebbe accaduto l’inevitabile. Il caos più sanguinoso avrebbe regnato sul paese. Le truppe notturne di Koleso sarebbero state in prima linea: diecimila schifosi assassini, gli scarti della società, scomunicati, molestatori di bimbi, stupratori, feccia della razza umana. Orde di barbari pellerossa sarebbero calate dalle montagne e avrebbero massacrato tutti, vecchi e bambini. Folle immense di contadini, artigiani e borghesi accecati dal terrore, sarebbero fuggiti a nascondersi nei boschi, sulle montagne, nel deserto. E i suoi compagni d’arme, uomini meravigliosamente coraggiosi, si sarebbero sgozzati l’uno con l’altro lottando per il potere e per il possesso della mitragliatrice dopo l’inevitabile fine violenta di Rumata, la sua morte… E quella morte stupida e volgare lo avrebbe sorpreso con un calice di vino offerto da un amico o una freccia scoccata da dietro una tenda. E poi il viso ferreo del suo successore mandato dalla Terra a sostituirlo, che avrebbe trovato un paese grondante di sangue e devastato dal fuoco. Un paese dove tutto, sì, tutto, sarebbe dovuto ricominciare dal principio… Rumata spinse la porta di casa ed entrò nell’ingresso magnifico che stava già cadendo in rovina. Aveva il volto cupo come una tempesta pronta a scatenarsi. Muga il gobbo, il servitore dai capelli grigi che era stato lacchè per quarantanni, nel vederlo si spaventò. Curvò la schiena ancora di più e ritrasse la testa fra le spalle mentre il giovane padrone, furioso, si toglieva cappello, mantello e guanti, e gettava su una panca le spade, salendo velocemente nella sua stanza. Uno, il ragazzo, lo aspettava in salotto. «Da’ ordine di servire il pranzo!» sbraitò Rumata. «Nel mio studio!» Il ragazzo non si mosse. «C’è qualcuno che vi sta aspettando» disse di malumore. «Chi?» «Una ragazza. Forse una nobildonna. Affascinante, vestita come una signora. È bella». «Kyra» pensò Rumata, sollevato. La tensione cominciò ad allentarsi. «Meraviglioso. Che bello che sia venuta proprio ora…» Si fermò, chiuse gli occhi per riacquistare completamente la calma. «Devo cacciarla via?» chiese sollecitamente il ragazzo. «Idiota!» esclamò Rumata. «Io caccio via te! Dov’è?» «Nello studio» rispose il ragazzo con un sorriso umile. «Pranzo per due» disse Rumata, entrando nello studio. «E niente visite! Neanche se fosse il Re, o il diavolo, o Don Reba in persona! Non voglio ricevere nessuno». Entrando nello studio la vide. Era seduta in una grande poltrona, le gambe piegate da un lato sotto di sé, la testa appoggiata sulla mano sinistra, e sfogliava distrattamente il Trattato sulle voci. Vide Rumata che entrava e fece per alzarsi in piedi. Ma lui non gliene diede il tempo, corse da lei, la baciò, immerse il viso nei suoi capelli morbidi e profumati e le sussurrò: «Sei venuta al momento giusto, Kyra! È magnifico!» Kyra in fondo non era niente di speciale. Era una ragazza come tante, di diciott’anni, con il naso all’insù. Suo padre era assistente cancelliere del tribunale, suo fratello era sergente nella Milizia Grigia. Aveva pochi corteggiatori a causa dei suoi capelli ramati, perché le rosse non erano molto richieste ad Arkanar. Forse era quello il motivo della sua tranquillità e della sua timidezza sorprendenti: non aveva niente da spartire con le donne vistose e voluttuose che erano idolatrate dai ricchi e anche dai poveri. Non aveva neppure le caratteristiche delle languide dame di corte, costrette a imparare fin troppo presto e per sempre il loro ruolo di donne. Kyra era capace di vero amore, di amare come una terrestre: silenziosamente e senza riserve. «Perché hai pianto?» «Che cosa ti ha irritato tanto?» «No, dimmi, perché hai pianto?» «Te lo dirò poi. Hai gli occhi così stanchi. Che è successo?» «Dopo. Chi ti ha insultato?» «Nessuno. Per favore, portami via!» «Te lo prometto». «Quando ce ne andremo?» «Cara, non lo so. Ma ce ne andremo, questo è certo». «Lontano?» «Molto lontano». «Nella capitale?» «Sì… Nella capitale. A casa mia». «È bello, là?» «Molto. Là non si piange mai». «E com’è la gente?» «Come me». «Tutti?» «Non tutti. Molti sono molto meglio di me». «Impossibile!» «Vedrai!» «Perché è così facile crederti? Mio padre non crede a nessuno. Mio fratello dice che gli uomini sono tutti dei porci, degli schifosi. Ma non gli credo, non credo a quello che mi dicono, mentre a te credo sempre». «Ti amo…» «Aspetta… Rumata… Togliti il cerchietto. Hai detto che era peccato…» Rumata sorrise. Si tolse il cerchietto dalla fronte, lo appoggiò sul tavolo e lo coprì con un libro. «È l’occhio di Dio» disse. «Lasciamolo riposare un po’«. La prese tra le braccia. «È peccato, sì. Ma quando sono con te Dio non mi serve, vero?» «Sì, è così» rispose piano la ragazza. Quando si sedettero a tavola l’arrosto era ormai freddo e il vino di cantina si era riscaldato. Uno entrò camminando silenziosamente rasente il muro, come gli era stato insegnato da Muga, e cominciò ad accendere le candele anche se era ancora giorno. «È il tuo schiavo?» domandò Kyra. «No, lui è libero. Un ottimo ragazzo, solo molto tirchio». «L’oro deve restare al suo posto» disse Uno senza voltarsi. «Di certo non hai comprato le lenzuola nuove, vero?» chiese Rumata. «E perché? Quelle vecchie sono ancora buone. Dureranno ancora un po’«. «Ma non posso dormire con le stesse lenzuola per un mese, Uno!» «Eh! Sua Altezza Reale dorme nelle stesse lenzuola per sei mesi e non si lamenta». «E le candele?» disse Rumata, strizzando l’occhio a Kyra. «Le candele delle bugie? Le hai avute gratis?» Uno tacque per un momento. «Ma avete visite!» disse poi enfaticamente. «Vedi com’è!» esclamò Rumata. «È un bravo ragazzo!» ribatté seria Kyra. «Ti vuole bene. Portiamolo con noi». «Vedremo» disse Rumata. Il ragazzo si accigliò sospettoso. «Dove dovrei andare? Non mi muovo di qui». «Andremo in un posto dove tutti sono come Rumata». Il ragazzo rifletté brevemente, poi disse con disprezzo: «In paradiso, eh? Come la nobiltà». Poi sbuffò come un cavallo, e uscì trascinando le ciabatte. Kyra lo seguì con lo sguardo. «Un bravo ragazzo» disse. «Diffidente come un orso. Ma ti è veramente amico». «Tutti i miei amici sono brave persone». «Anche il Barone Pampa?» «Come fai a saperlo?» «Parli solo di lui. Il Barone Pampa qui, il Barone Pampa là…» «Il Barone Pampa è un buon compagno». «Cosa vuol dire che è un compagno?» «Voglio dire che è una brava persona. Molto gentile e affabile. E ama molto sua moglie, sopra ogni cosa». «Mi piacerebbe incontrarlo… O hai altri progetti, per me?» «No, no. Ma per quanto sia una brava persona, è pur sempre un barone». «Ma…» Rumata spinse via il piatto. «Adesso dimmi perché hai pianto. E perché sei venuta di corsa a casa mia, da sola. Lo sai che di questi tempi non è consigliabile». «Non sopportavo più di stare a casa. Non voglio tornarci. Sarò la tua serva. Gratis». Rumata sorrise, ma allo stesso tempo sentì un nodo in gola. «Ogni giorno mio padre copia le confessioni» continuò lei con una calma disperazione nella voce «e i documenti che ricopia sono macchiati di sangue. Li va a prendere nella Torre della Gioia. Oh, perché mi hai insegnato a leggere? Tutte le sere, tutte le notti, copia quei rapporti, e beve. È così orribile, orribile! ‘Guarda, Kyra’ mi dice il nostro vicino, il calligrafo, insegnava a leggere e scrivere alla gente. Riesci a immaginare che cos’era in realtà? Lo ha confessato sotto tortura: era un mago, una spia di Irukan. A chi, a chi si può credere ormai? Io stesso ho imparato da lui a leggere e scrivere’. E mio fratello torna a casa dal servizio puzzando di birra, con le mani sporche di sangue… ‘Li stermineremo tutti’ dice ‘fino alla dodicesima generazione’. Non vuol lasciare in pace mio padre, continua a chiedergli come mai sa leggere e scrivere… Oggi mi ha raccontato che con i suoi amici ha trascinato a casa nostra un uomo… Lo hanno picchiato finché non sono stati tutti sporchi di sangue, e finalmente lui ha smesso di urlare. Non posso andare avanti così, non voglio più tornarci, piuttosto la morte…» Rumata le era accanto e le accarezzava i capelli. I suoi occhi asciutti e ardenti fissavano un punto nel vuoto. Cosa poteva dirle? La prese in braccio e la portò sul divano, si sedette vicino a lei e cominciò a parlare. Le parlò di templi di cristallo, di giardini che si estendevano per miglia e miglia senza sporcizia, moscerini, zanzare, spazzatura. Le parlò della tavola che serviva la cena da sé, del tappeto volante, della bella Leningrado, dei suoi amici, gente felice, buona e fiera, e di un paese meraviglioso oltre gli oceani, oltre i sette monti, chiamato Terra… Lei ascoltava tranquilla e attenta, stringendosi a lui, mentre dalla strada proveniva il rumore metallico degli scarponi sul selciato. Kyra aveva una dote meravigliosa. Credeva incondizionatamente nel bene. Se lui avesse raccontato le stesse cose a un servo della gleba, l’uomo avrebbe fatto una smorfia stupida e incredula, si sarebbe soffiato il naso nella manica e l’avrebbe guardato a bocca aperta senza dire una parola, come avrebbe guardato una creatura leggendaria, pensando: «Che peccato! Un signore così buono, nobile, intelligente! Peccato che gli abbia dato di volta il cervello!» Peggio ancora, se avesse detto quelle cose a Don Tameo o a Don Sera, non si sarebbero degnati di prestargli attenzione. Il primo si sarebbe addormentato e l’altro si sarebbe limitato a ruttare e a dire: «Interessante, interessante davvero… Ma le donne come sono?» Mentre Don Reba avrebbe ascoltato attentamente fino alla fine, poi avrebbe fatto un cenno ai suoi segugi, gli Sturmovik, perché slogassero le braccia al signore e scoprissero dove il signore aveva imparato quelle favole e chi altri le conosceva… Quando Kyra si fu calmata e addormentata, la baciò piano sul viso, la coprì con la propria pelliccia, lasciò la stanza in punta di piedi e chiuse lentamente dietro di sé la porta cigolante. Scese le scale buie e andò nelle stanze della servitù, guardò le loro teste chine in segno di saluto e disse: «Ho assunto una governante. Si chiama Kyra. Vivrà al piano di sopra e dividerà i miei appartamenti. Domani la stanza accanto allo studio dovrà essere pulita da cima a fondo. Obbedirete ai suoi ordini come se fossero i miei». Osservò per un attimo i servitori per vedere se qualcuno sogghignava. Nessuno batteva ciglio; lo ascoltavano con il dovuto rispetto. «E se qualcuno osa mormorare alle mie spalle, gli strappo la lingua!» Quando ebbe finito si fermò ancora un momento aspettando che quelle parole facessero effetto, poi si voltò e tornò nei suoi appartamenti. Il soggiorno era arredato con mobili bizzarri, macchiati dai resti di innumerevoli insetti, e dalle pareti pendevano a mo’ di decorazione dozzine di vecchie armi arrugginite. Rumata andò alla finestra, premette la fronte contro il vetro scuro e freddo e guardò giù in strada. Proprio in quel momento il rintocco delle campane segnava la prima veglia. Dall’altra parte della via le finestre erano illuminate dietro le persiane chiuse, per evitare di attirare i malintenzionati e i fantasmi. Per un attimo fu tutto tranquillo. Una volta soltanto il silenzio fu rotto da un ubriaco che ringhiava orribilmente: forse lo stavano derubando, oppure aveva bussato a una porta non sua. Quelle serate erano la cosa più terribile: tetre, solitarie e disperate. «Sapevamo che la battaglia si sarebbe trascinata a lungo, feroce ma vittoriosa» rifletté Rumata. «Sapevamo che non avremmo mai deviato dalle nostre convinzioni circa il bene e il male, l’amico e il nemico. E in generale le nostre proiezioni si sono rivelate esatte, ma non potevamo prevedere tutto. Serate come queste, per esempio. Anche se ci aspettavamo che sarebbero arrivate». Di sotto sentì il rumore del metallo che colpiva altro metallo: stavano sprangando le porte, preparandosi per la notte. La cuoca pregava san Michele che le mandasse un uomo, uno qualsiasi, purché avesse rispetto di sé e di lei. Il vecchio Muga sbadigliava e con il pollice disegnava cerchi nell’aria. I servi bevevano la loro birra in cucina e spettegolavano, mentre Uno lanciava loro occhiate di disapprovazione e li rimproverava come un adulto: «Vi laverà la bocca con il sapone, imbecilli». Rumata si allontanò dalla finestra e cominciò a camminare su e giù per la stanza. «Non c’è speranza» pensò. «In questo mondo nessun potere avrà mai la forza di strapparli alle loro abitudini, alle loro preoccupazioni, alle loro tradizioni consolidate. Si potrebbe dare loro qualsiasi cosa. Si potrebbe trasferirli negli alloggi spettroacustici più avanzati, spiegare loro la ionizzazione, e continuerebbero a radunarsi in cucina per giocare a carte fino al mattino, indifferenti al vicino che picchia sua moglie. E non potrebbero avere passatempo migliore. Don Kondor ha ragione quando dice che Don Reba è un pidocchio, una nullità in confronto al peso schiacciante delle tradizioni, regole inflessibili santificate dai secoli, onorate da sempre, irrefutabili e familiari anche al peggiore idiota. Evitano di dover pensare e di doversi interessare a qualcosa. E Don Reba forse sarà appena menzionato nei libri di scuola: ‘Avventuriero di secondo piano vissuto all’epoca in cui si consolidò l’assolutismo’. «Don Reba, Don Reba! Né alto né basso, né magro né grasso. Non ha capelli troppo folti, ma non è neppure calvo. I suoi movimenti non sono né energici né lenti. Il suo viso si dimentica in un attimo: ci sono migliaia di persone che gli assomigliano. Con le signore è cortese e galante. Un conversatore attento, quando vuole, ma non molto brillante…» Tre anni prima era emerso da qualche ufficio nel seminterrato della cancelleria, piccolo ufficiale insignificante… In quel periodo aveva ancora un atteggiamento servile, e il colorito pallido. A volte era addirittura grigiastro. Poco tempo dopo il primo ministro era stato improvvisamente arrestato e giustiziato. Molti alti ufficiali avevano perso la vita sotto le torture: erano impazziti di terrore senza neppure sapere che cosa fosse successo. Sui loro cadaveri era cresciuto un fungo gigantesco e incolore, quel genio della mediocrità ottuso e spietato. «E una nullità. È emerso dal nulla. Non è la mente brillante sotto un governante debole che si incontra spesso nella storia. Non è neanche il grand’uomo che sparge il terrore dedicando tutta la sua vita a unificare la nazione nel nome dell’autocrazia. E non è neppure l’avido parassita che pensa solo alle donne e all’oro, quello che, ubriaco di potere, colpisce alla cieca e governa solo per uccidere. Si mormora addirittura che non sia affatto Don Reba, che Don Reba in realtà sia una persona molto diversa, mentre l’altro potrebbe essere un lupo mannaro, un sosia, un demonio…» Qualunque piano avesse in mente Don Reba, era destinato a fallire. Aveva istigato due famiglie principesche a combattersi e a tramare l’una contro l’altra per indebolirle, e aveva cercato di approfittare di questa inimicizia attaccando direttamente i baroni. Ma le due famiglie si erano riconciliate, giurando eterna fratellanza al tintinnio dei calici di champagne, e avevano sottratto al Re alcuni territori che erano da sempre appartenuti alla famiglia reale. Aveva dichiarato guerra a Irukan, guidato personalmente l’esercito fino al confine lasciando annegare i soldati nelle paludi o facendoli perdere nei boschi, ed era fuggito ad Arkanar. Grazie agli sforzi di Don Hug, che naturalmente era all’oscuro di tutto, era riuscito a strappare un trattato di pace al Duca di Irukan, costato la perdita di due città di confine. Il Re era stato costretto a mettere a repentaglio il suo tesoro, per fronteggiare la rivolta dei contadini che si era propagata per tutto il paese. Chiunque avesse commesso errori così stupidi sarebbe stato appeso per i piedi nella Torre della Gioia. Don Reba, invece, riusciva sempre a mantenere il potere. Con un decreto aveva sciolto i ministeri della Cultura e della Morale e aveva fondato il ministero della Sicurezza Interna per la Protezione della Corona, aveva allontanato l’aristocrazia locale e vari studiosi dalle posizioni chiave, aveva ribaltato l’economia del paese, aveva scritto un trattato Sulla stupidità degli allevatori e dell’ agricoltura, e un anno prima aveva creato le sue truppe speciali, i Grigi. «Hitler era sostenuto dai capitalisti» pensò Rumata «ma non c’è nessuno dietro Don Reba. È inevitabile come il giorno dopo la notte che gli Sturmovik prima o poi lo ammazzino come una mosca». Eppure lui continuava a schivare i colpi, a tramare, a commettere una sciocchezza dopo l’altra, sfuggendo sempre alla rete che minacciava di intrappolarlo; imbrogliava e mentiva a se stesso giorno dopo giorno, ossessionato da un desiderio folle: distruggere tutta la cultura. Come Waga Koleso, non aveva un passato. Appena due anni prima tutti i parassiti aristocratici di corte ne parlavano con disprezzo, lo chiamavano imbroglione spregevole, ingannatore del Re. Invece adesso qualsiasi nobile si dichiarava parente stretto del ministro della Sicurezza, almeno da parte di madre. «Ora sembra che abbia bisogno di Budach per qualche suo piano. Sarà l’ennesima calamità. Un altro disastro. Budach è un topo di biblioteca. Giù nella fossa! Facciamo un gran clamore, così tutti lo sapranno. Ma non c’è stato nessun clamore. Significa forse che Budach gli serve vivo? A che scopo? Reba non può essere tanto ingenuo da sperare di costringerlo a lavorare per lui. Ma forse dopotutto lo è. Potrebbe darsi che Don Reba sia solo un intrigante stupido ma abile, che non sa neppure lui cosa vuole, che si nasconde dietro una finta astuzia. È ridicolo. L’ho studiato per tre anni e ancora non riesco a definirlo. E se a sua volta mi osservasse non riuscirebbe a trarne migliori conclusioni. Ma tutto è possibile, questo è il bello. La teoria di base può elaborare un elenco articolato delle possibili mete psicologiche, ma in realtà esistono tanti obiettivi quanti esseri umani sulla Terra, e chiunque può raggiungere il potere. Anche uno che si dedica a truffare gli altri, a sabotarli, a rovinarli. Naturalmente alla fine sarà spodestato, ma intanto avrà avuto il tempo di mostrare il suo disprezzo per l’umanità, di danneggiarla il più possibile e, quel che è peggio, di rallegrarsi delle sue malefatte. E non gli importa se la storia non si chiederà mai chi era, e se i suoi discendenti si spremeranno le meningi per classificare la sua condotta in modo da adeguarla alle teorie più avanzate sulle leggi della storia». Improvvisamente, Rumata si ricordò di Donna Okana. «Su, deciditi» pensò. «Comincia subito. Una volta che un dio si decide a spazzar via tutto, non ha bisogno di avere le mani pulite…» Il pensiero di ciò che l’aspettava gli dava la nausea. Ma era sempre meglio che uccidere. Meglio il letame del sangue. In punta di piedi, per non svegliare Kyra, entrò nello studio e si cambiò. Indeciso, giocherellò con il cerchietto trasmittente, poi lo infilò risolutamente in un cassetto della scrivania. Si mise una piuma bianca dietro l’orecchio sinistro, simbolo della passione, si allacciò le due spade alla cintura e si avvolse nel mantello più elegante che aveva. Aprendo il portone, pensò: «Se Don Reba lo verrà a sapere, per Donna Okana sarà la fine. Ma è troppo tardi per tornare indietro». Capitolo IV Gli ospiti erano tutti riuniti, ma Donna Okana non era ancora arrivata. I comandanti della guardia reale, famosi per i loro duelli e le loro avventure amorose, stavano seduti intorno a un tavolino dorato come su un arazzo. Si sporgevano avanti con grazia quando bevevano, mettendo in mostra i deretani obesi. Accanto al camino sorridevano dame esangui che non si distinguevano per meriti particolari, e che proprio per questo erano state assegnate a Donna Okana come confidenti e amiche. Stavano sedute in fila su divani bassi, e davanti a loro tre anziani gentiluomini non smettevano di ballare sulle gambe magre: celebri damerini dell’epoca del Re precedente, ultimi conoscitori degli aneddoti di corte che tutti gli altri avevano dimenticato. Tutti sapevano che, senza quei vecchi gentiluomini, un salotto non sarebbe stato degno di tale nome. In mezzo alla sala Don Ripat, tenente della Guardia di Corte Grigia, stava in piedi a gambe larghe. Era un agente fidato e abile di Don Rumata. Aveva baffi splendidi, ed era completamente amorale. Con i pollici infilati nella cintura di cuoio stava ad ascoltare Don Tameo, che, con totale Mancanza di organizzazione e abbondanza di dettagli, cercava di presentare un progetto per rivitalizzare l’economia a spese dei contadini. Intanto Don Ripat puntava i baffi in direzione di Don Sera, che cercava a tastoni una qualche porta segreta nel muro. In un angolo sedevano due celebri ritrattisti che osservavano attentamente ogni cosa divorando un arrosto delle dimensioni di un coccodrillo; accanto alla finestra stava seduta una dama di mezza età vestita di nero: la chaperonne assegnata da Don Reba a Donna Oltana. Guardava fisso davanti a sé con espressione dura, e aveva un aspetto molto severo. Ogni tanto, improvvisamente, inclinava il corpo in avanti. Più in là, un personaggio di sangue reale e il segretario dell’ambasciata di Soan ammazzavano il tempo giocando a carte. Il personaggio reale barava, e il segretario sorrideva indulgente. Era l’unica persona in quel salotto a occuparsi di qualcosa di serio: stava raccogliendo materiale per le spie della diplomazia. Gli ufficiali della guardia, seduti ai tavolini dorati, salutarono Rumata con un grido amichevole. Rumata fece loro un cenno cameratesco e andò da un ospite all’altro. Scambiò vari inchini con gli anziani damerini, fece qualche complimento alle confidenti di Donna Okana, che notarono immediatamente la piuma bianca dietro l’orecchio, diede una pacca sulla spalla al personaggio di sangue reale, poi rivolse la propria attenzione a Don Ripat e a Don Tameo. Mentre passava davanti alla finestra, la chaperonne cadde di nuovo in avanti con il busto; emanava un odore penetrante di decotto. Non appena vide Rumata, Don Ripat tolse i pollici dalla cintura e batté i tacchi. Don Tameo esclamò: «È lei, amico mio? È meraviglioso che siate venuto: avevo già perso ogni speranza. ‘Come cigno dall’ala spezzata, che sospira guardando una stella..? Ero così pieno di desiderio… E se non fosse stato per l’eccellente Don Ripat, sarei già morto di dolore!» Era chiaro che Don Tameo aveva avuto le migliori intenzioni di restare sobrio fino all’ora di cena, ma sfortunatamente non gli era riuscito. «Ma mio caro!» disse Don Rumata. «Da quando in qua citiamo i versi del sovversivo Zuren?» Don Ripat si irrigidì, fulminando Don Tameo con gli occhi felini. «Eh, eh…» biascicò confuso Don Tameo. «Zuren? Sì, infatti, e perché lo sto citando? Sì, sì, per così dire… con intenzione sarcastica, vi assicuro, signori! Sì, chi è questo Zuren? Soltanto un demagogo ingrato. Volevo solo far notare…» «Che Donna Okana non è ancora arrivata» l’interruppe Rumata «e che siete stato costretto a bere senza la sua compagnia». «Proprio così». «A proposito, dov’è?» «Dovrebbe essere qui da un momento all’altro» rispose Don Ripat, che si allontanò con un inchino. Le confidenti della padrona di casa continuavano a guardare la piuma bianca a bocca aperta. I vecchi damerini sorridevano malignamente. Infine anche Don Tameo si accorse della piuma, e cominciò a tremare. «Amico mio!» sussurrò. «Cosa significa? Se Don Reba dovesse vederla… Anche se non lo aspettiamo per stasera, ma non si può mai essere sicuri…» «Andiamo, smettetela» disse Rumata percorrendo la stanza con uno sguardo impaziente. Voleva arrivare in fondo il più presto possibile. Gli ufficiali della guardia si avvicinarono con dei bicchieri di vino in mano. «Com’è pallido!» mormorò Don Tameo. «Capisco, questa è la passione… Ma, per san Michele, lo Stato dovrebbe venire prima di tutto! E poi è pericoloso, pericolosissimo… Un insulto ai sentimenti di Don Reba…» Nella sua espressione cambiò qualcosa mentre cominciava a indietreggiare inquieto, uscendo dalla stanza, continuando a inchinarsi. Gli ufficiali della guardia circondarono Rumata. Qualcuno gli porse un calice di vino. «Brindiamo all’onore e a Sua Maestà il Re!» gridò uno degli ufficiali. «E all’amore!» aggiunse un altro. «Mostratele di cosa è capace la guardia, signore!» Rumata prese il calice e improvvisamente vide Donna Okana. In piedi sulla soglia, agitava il ventaglio elegante muovendo le spalle, con il viso atteggiato in un’espressione languida. Era molto graziosa. Da quella distanza poteva anche sembrare bella. Disgraziatamente non era l’ideale di Rumata ma era pur sempre carina, quella giumenta stupida e sensuale. Grandi occhi azzurri senza una scintilla d’intelligenza o di calore, una bocca morbida ed esperta, un corpo voluttuoso le cui forme erano svelate con abilità e grande cura. Un ufficiale della guardia dietro Rumata sembrò non riuscire a controllarsi più e schioccò le labbra sonoramente. Senza voltarsi, Rumata diede il calice a qualcuno, andando a grandi passi verso Donna Okana. Tutti i presenti distolsero gli occhi, cominciando a discutere di cose futili. «La sua bellezza è accecante» mormorò Rumata, inchinandosi e facendo tintinnare le spade. «Mi permetta di giacere ai suoi piedi come un levriero ai piedi di una bella donna indifferente». Donna Okana nascose il viso dietro il ventaglio, sorridendo civettuola. «Lei è molto audace, signore. Noi povere provinciali siamo incapaci di resistere a simili tempeste…» Aveva una voce profonda e stridula, che qualche volta le veniva meno. «Ahimè, non posso fare altro che aprire i cancelli della fortezza e far entrare il vincitore…» Stringendo i denti per la rabbia e la vergogna, Rumata si inchinò ancora più profondamente. La donna abbassò il ventaglio e disse ad alta voce: «Nobili signori! Andate a divertirvi! Tornerò presto con Don Rumata. Ho promesso di mostrargli i miei nuovi tappeti irukani». «Non ci privi troppo a lungo della sua presenza, bellezza ammaliante!» belò uno dei vecchi gentiluomini. «Che donna magnifica!» esclamò un altro, aggiungendo, con tono nauseante: «La regina delle fate!» Gli ufficiali della guardia fecero tintinnare le sciabole. «Devo ammettere che ha un certo buon gusto» commentò il personaggio di sangue reale. Donna Okana prese Rumata per la manica e se lo tirò dietro. In corridoio, lui sentì Don Sera dichiarare, offeso: «Non vedo perché un gentiluomo non possa andare a vedere dei tappeti irukani…» In fondo al corridoio, Donna Okana si fermò improvvisamente, gli cinse il collo, e con un gemito che indicava un’esplosione di passione incontenibile lo baciò sulla bocca con violenza, attaccandosi alle sue labbra e risucchiandole come una sanguisuga. Rumata trattenne il respiro. Il corpo della donna emanava un odore pungente di profumo irukano misto a quello della pelle sporca. Le sue labbra erano bollenti, umide e appiccicose di canditi. Coraggiosamente, cercò di scacciare la nausea e di ricambiare il bacio, e in apparenza ci riuscì, perché Donna Okana mugolò di nuovo e si abbandonò al suo abbraccio con gli occhi chiusi. Gli sembrò un’eternità. «Adesso avrai quello che cerchi, bestia» pensò Rumata, e la strinse forte. Si sentì uno scricchiolio: il busto, o forse una costola. La bella gemette, aprì stupefatta gli occhi e si divincolò debolmente, cercando di sottrarsi alla sua presa. Rumata la lasciò subito andare. «Che amante temerario!» disse lei ansimando, accecata dal desiderio. «Mi hai quasi spezzato in due!» «Brucio di desiderio» mormorò lui. «Anch’io. Quanto ti ho aspettato! Andiamo, presto!» Tenendolo per mano, gli fece attraversare delle stanze gelate. Rumata prese il fazzoletto e si pulì le labbra di nascosto. Tutta quella faccenda ora sembrava senza senso. «Ma devo farlo» pensò. «Che cosa ci tocca sopportare, qui. Non tutto si può risolvere con le parole. Per san Michele, perché non si lavano mai, a corte? E oltre alla puzza, questo temperamento così passionale…» Se Don Reba li avesse sorpresi… La donna lo tirava senza parlare, con la forza di una formica che trascina larve morte. Rumata si sentiva idiota e continuava a sussurrare sciocchezze sui suoi «piedini veloci» e le sue «labbra rosse come una rosa». Lei continuava a gongolare. Lo fece entrare in tutta fretta in un boudoir surriscaldato alle cui pareti erano effettivamente appesi grandi tappeti. Donna Okana si lasciò cadere sul letto enorme e lo guardò con occhi umidi e brillanti. Rumata si irrigidì. Nel boudoir c’era un’inconfondibile puzza di cimici. «Sei così bello!» mormorò lei. «Vieni più vicino, vieni da me. Ti ho aspettato tanto!» Rumata distolse gli occhi. Era nauseato. Il sudore gli colava dalla fronte. «Non ci riesco» gli balenò in mente. «Al diavolo le informazioni che potrei strapparle… Che animale, che caricatura… È innaturale, sporco, va contro la mia coscienza. Certo, meglio la sporcizia del sangue, ma questo è molto peggio della sporcizia». «Cosa aspetti?» ansimò Donna Okana. «Oh, amore, vieni, ti sto aspettando!» «Oh, all’inferno!» sibilò Rumata d’impulso. Lei scese dal letto e corse verso di lui. «Che ti prende? Sei ubriaco?» «Non lo so». Si sforzava di pronunciare le parole. «Qui dentro fa troppo caldo». «Ti farò portare un calice». «Di cosa?» «Oh, lascia perdere… Passerà…» Le dita le tremavano per l’impazienza, mentre cominciava a sbottonargli la giacca. «Sei veramente stupendo…» sussurrava con un filo di voce. «Ma sei così timido, come una verginella. Da te non me lo sarei mai aspettato… Ma è così eccitante, per San Bara!…» Volente o nolente, non poteva più temporeggiare: doveva prenderla per la mano. L’osservò bene e vide i suoi capelli sporchi e laccati, le spalle nude e tonde punteggiate di cipria e gli orecchi rosati. «È disgustoso» pensò. «Non posso farci niente. Peccato, però, perché sa alcune cose… Don Reba parla nel sonno… La porta con sé ai colloqui, e lei adora gli interrogatori… No, non ce la faccio…» «Allora?» sbottò lei irritata. «I vostri tappeti sono davvero belli, signora. Grazie per avermeli mostrati, ma adesso devo proprio andare». Sul momento lei non capì, poi contrasse grottescamente il viso in una smorfia di rabbia. «Come osa!» esclamò, ma lui aveva già trovato la maniglia della porta, era uscito in corridoio e aveva tagliato la corda. «D’ora in poi non mi laverò più» pensò. «Qui bisogna essere porci schifosi, non dèi!» «Brocco! Vecchia zitella miserabile! Bisognerebbe gettarti nelle segrete!» Rumata spalancò una finestra e saltò in cortile. Si fermò un attimo sotto un albero, respirando a pieni polmoni l’aria fredda e pulita. Poi gli venne in mente la piuma bianca. Se la strappò rabbiosamente e la calpestò. «Neanche il mio amico Pashka ce l’avrebbe fatta» si disse. «Nessuno di noi». «Ne sei sicuro?» «Sì!» «Allora siete dei buoni a nulla». «Ma mi dava la nausea!» «I tuoi sentimenti non contano, ai fini dell’esperimento. Se non ce la fai, allora lascia perdere!» «Ma io non sono un animale!» «Se l’esperimento lo richiede, devi diventarlo». «L’esperimento non può richiedere questo». «Può, invece, come vedi!» «Ma allora…» «Allora, cosa?» Non sapeva che cosa. «Allora… Allora… Be’, allora diranno che sono un cattivo storico». Si strinse nelle spalle. «Quindi cerchiamo di migliorare. Cominciamo a imparare a diventare un porco…» Arrivò a casa a mezzanotte. Si tolse il fez, e senza spogliarsi si buttò su un divano in salotto, addormentandosi profondamente. Fu svegliato dalle grida esasperate di Uno e da una voce bassa e affabile che urlava: «Vattene, bestia, o ti scuoio vivo!» «Il mio padrone dorme, le dico!» «Vattene! Fuori dai piedi!» «Non può entrare, le dico!» La porta si spalancò fragorosamente e nella stanza si precipitò Don Bau, il Barone Pampa, enorme come il mostro selvaggio Pech, con le guance arrossate, i denti bianchi, i baffi curvi, un gaio berretto di velluto rosso in testa e un prezioso mantello color lampone gettato sulle spalle larghe, sotto il quale si vedeva una tunica in maglia di rame. Si trascinava dietro Uno, aggrappato disperatamente alla sua gamba destra. «Barone!» esclamò Rumata, e si sedette sul divano. «Come mai sei in città, amico mio? Uno, lascialo andare!» «Che ragazzo devoto, ti sta proprio appiccicato!» disse il barone andando verso Rumata a braccia aperte. «Sembra a posto, devo dire. Quanto vuoi per lui? Ma ne parliamo dopo… Adesso lascia che ti abbracci!» Si abbracciarono. Il barone aveva un buon odore di strade di campagna, di cavalli e di vino. «Vedo che sei completamente sobrio» disse sconsolato. «Ma in fondo tu lo sei sempre, uomo fortunato!» «Siediti» disse Rumata. «Uno! Porta del vino estoriano, un bel po’!» «Neanche un goccio!» «Cosa? Neanche un goccio di vino estoriano? Uno, lascia stare e portaci un po’ di quello irukano». «Niente vino, grazie» disse tristemente il barone. «Non bevo». Rumata si sedette. «Cos’è successo?» chiese preoccupato. «Stai male?» «Sono sano come un pesce. Ma queste maledette liti in famiglia… Per farla breve: ho litigato con la baronessa. E adesso sono qui». «Litigato con la baronessa? Tu? Smettila, per favore. Che razza di scherzo è questo?» «Non lo capisco neanch’io, sono come immerso nella nebbia. Sì, sono venuto fin qui a cavallo e ho fatto centoventi miglia con il cervello annebbiato!» «Amico mio, torniamo subito al castello di Bau». «Ma il mio cavallo è ancora sudato. E poi io voglio punirla!» «Chi?» «La baronessa, maledizione! Sono un uomo o un topo? Vedi, lei è scontenta di Pampa, l’ubriacone. Che scopra quanto so essere sobrio! Preferisco star qui a marcire nell’acqua che ritornare al castello!» Uno borbottò: «Ditegli di smetterla di muovere le orecchie!» «Adesso te ne devi andare, mascalzone!» brontolò la voce profonda e allegra del barone. «E portami della birra! Ho sudato tutto, adesso devo riempirmi di nuovo». Per una mezz’ora il barone Pampa si dedicò a riempirsi e a chiacchierare piacevolmente. Raccontò i suoi problemi fra un sorso di birra e l’altro. Maledì più volte «…quegli ubriaconi dei miei vicini, che vengono a invadere il mio castello. Fingono di voler venire a caccia con me, arrivano il mattino presto, e in un batter d’occhio sono ubriachi fradici e mi sfasciano i mobili. Mettono sottosopra il castello, insozzano tutto quanto, molestano la servitù e i cani, e danno il cattivo esempio al giovane barone. Poi se ne vanno, tornano a casa e mi lasciano solo, ubriaco come un maiale, e io devo star lì con la baronessa, affrontarla da solo….» Verso la fine del racconto il barone perse il controllo di sé e fu quasi sul punto di ordinare un po’ di vino estoriano, ma poi si riprese e disse: «Rumata, amico mio! Andiamocene. I tuoi vini sono troppo cari! Andiamo». «Ma dove?» «Non ha importanza, dove! Che ne dici della Grigia Gioia?» «Mmh… E che cosa ci andiamo a fare, alla Grigia Gioia?» Il barone tacque per un momento, accarezzandosi la barba con aria furba. «Su, su! Perché fai queste domande assurde? Che cosa ci andiamo a fare? A scambiare quattro chiacchiere». «Alla Grigia Gioia?» chiese dubbioso Rumata. «Sì. Ti capisco. E orribile… Però andiamoci. Qui sono continuamente tentato dal tuo vino estoriano». «Il mio cavallo!» ordinò Rumata, andando nello studio a prendere la trasmittente. Poco dopo i due cavalcavano fianco a fianco lungo una stradina stretta immersa nell’oscurità più profonda. Il barone aveva recuperato il suo buonumore e parlava a voce alta dell’orso enorme che aveva ucciso il giorno prima, dei talenti notevoli del giovane barone, del miracolo accaduto al monastero di San Tukky, dove l’abate aveva partorito dal fianco un bambino con sei dita. Intanto non tralasciava i suoi scherzi. Ogni tanto ululava come un lupo, cantava ninnenanne, bussava con l’impugnatura del pesante frustino contro le persiane chiuse. Arrivarono davanti alla Grigia Gioia, e il barone fermò il cavallo immergendosi nei suoi pensieri. Rumata aspettava. Le finestre polverose della taverna erano illuminate, i cavalli raspavano il terreno, le ragazze pesantemente truccate sedute su una panca sotto la finestra litigavano rumorosamente e due servitori si sforzavano di far rotolare un gran barile attraverso la porta. Il barone disse tristemente: «Solo! E orribile pensare di aver davanti tutta la notte e di doverla trascorrere da solo! E anche lei è sola!» «Non essere così triste. Con lei c’è il giovane barone, e con te ci sono io». «Non è la stessa cosa. Tu non puoi immaginarlo, amico mio. Sei giovane e spensierato. Forse ti diverti anche a guardare quelle prostitute là». «E perché no?» rispose Rumata, fissando il barone con interesse. «Mi sembrano accettabili». Il barone scosse la testa e rise sarcastico. «Ma guarda quella là» gridò. «Si trascina praticamente il didietro per terra. E quell’altra, quella che si sta grattando, non ha affatto un didietro. Sono vacche, amico mio, vacche. Pensa invece alla baronessa! Che mani, che grazia! Che corpo!» «Sì» ammise Rumata. «La baronessa è bella. Andiamo via di qui». «E dove?» chiese depresso il barone. «E perché?» Improvvisamente sul suo viso comparve un’espressione risoluta. «No, amico mio. Non me ne andrò. Io non vado da nessuna parte, ma tu puoi fare quello che vuoi». Smontò da cavallo. «Anche se mi sentirei insultato se tu mi lasciassi solo». «Starò qui con te, naturalmente, ma…» «Niente ‘ma’«. Affidarono le redini a uno dei servitori che erano accorsi ed entrarono nella taverna senza badare alle ragazze. L’aria era opprimente. La luce fioca delle minuscole lampade a olio penetrava a fatica la nebbia densa dei fumi e delle esalazioni. Il locale ricordava una grande sauna sudicia, come quelle che esistevano sulla Terra. Soldati con le divise sbottonate, madidi di sudore, marinai nudi sotto i caffettani colorati, donne con il seno appena coperto, Sturmovik che tenevano l’ascia tra le ginocchia. Lavoratori sul lastrico stavano seduti ai lunghi tavoli, mangiavano, bevevano, imprecavano, ridevano, urlavano e cantavano canzoni oscene con voce tonante. A sinistra si intravedeva un banco da cui l’oste, seduto su una piattaforma circondata da botti, impartiva direttive a uno sciame di servitori abili e truffaldini. A destra, attraverso la nebbia, brillava un grande rettangolo luminoso, l’entrata alla «sala privata» riservata ai mercanti, ai nobili e agli ufficiali Grigi. «Perché non dovremmo bagnarci il becco, a pensarci bene?» chiese il barone in tono irritato. Prese Rumata per un braccio e si fece largo fino al banco, passando in uno stretto corridoio fra i tavoli e graffiando la schiena dei clienti seduti con la fibbia un po’ sporgente. Al banco prese un grosso boccale, lo fece riempire fino all’orlo e senza parlare lo bevve fino all’ultima goccia in un colpo solo. Poi dichiarò che comunque tutto era perduto e restava una cosa sola da fare: divertirsi. Poi, rivolgendosi all’oste, chiese ad alta voce se quel locale avesse una stanza dove un nobile potesse passare il tempo in modo conveniente senza venir disturbato da canaglie e mascalzoni di tutti i tipi. L’oste lo rassicurò; nel suo locale quella possibilità c’era. «Eccellente!» esclamò il barone, gettandogli alcune monete d’oro con un gesto ampio. «Portaci il meglio. Ma non farci servire da qualche puttanella agghindata, vogliamo una donna rispettabile!» L’oste in persona accompagnò i signori nella «sala privata». C’erano già alcuni avventori. In un angolo era seduto un gruppo di ufficiali Grigi, due tenenti in alta uniforme e due capitani con la giacca corta e le spalline del ministero della Sicurezza Interna. Due aristocratici si erano appisolati vicino alla finestra davanti a una bottiglia di vino: avevano il viso smunto e triste, e in generale un’aria depressa. Al tavolo accanto sedeva un gruppetto di nobili decaduti con le giacche stropicciate e i mantelli rammendati. Sorbivano le loro birre ed esploravano spesso la stanza con lo sguardo avido. Il barone si sedette goffamente a un tavolo libero, guardò irritato gli ufficiali Grigi e brontolò: «Non si riesce mai a star lontani da quelle canaglie. Neppure qui». Una vecchietta grassa stava portando il primo piatto. Il barone borbottò qualcosa, staccò il pugnale dalla cintura e si accinse a mangiare. Divorò in silenzio grossi pezzi di cacciagione arrosto, montagne di molluschi marinati, pile di granchi, enormi quantità di insalate alla maionese, lavò il tutto con una cascata di vino, birra e birra casalinga, e poi con una miscela di tutti e tre. I nobili decaduti cercarono ripetutamente di unirsi al suo tavolo, ma il barone li mandò a quel paese con un gesto maestoso e un grugnito ostile. Improvvisamente smise di mangiare, fissò Rumata con gli occhi sporgenti e ringhiò come un animale feroce: «È da un po’ che non vengo ad Arkanar, mio nobile amico. E giuro sul mio onore che qui c’è qualcosa che non mi piace!» «E sarebbe?» chiese Rumata interessato, masticando un’ala di pollo. I visi dei nobili decaduti esprimevano attenzione e meraviglia. «Dimmi, caro amico» tuonò il barone pulendosi le mani unte nel mantello «da quando in qua è diventato normale nella nostra bella capitale, sede di Sua Altezza il Re, che i discendenti delle famiglie più antiche del regno non possano fare un passo senza imbattersi nei bottegai, nei miserabili macellai?» I nobili si scambiarono un rapido sguardo e si ritirarono nel loro angolo. Rumata fece l’occhiolino in direzione dell’altro angolo, dov’erano seduti gli ufficiali Grigi. Questi avevano posato il bicchiere e guardavano verso il tavolo del barone. «Vi dirò io, signori, dove sta il problema» continuò il barone. «Il problema è che siete una massa di vigliacchi. Li tollerate perché li temete. Voi, laggiù, siete spaventati a morte!» Urlava con quanto fiato aveva in gola e fissava il nobile decaduto vicino a lui. Ma il pover’uomo, sorridendo debolmente, abbandonò il suo tavolo come un cane con la coda tra le gambe. «Vigliacchi!» gridò il barone. Era così eccitato che i suoi baffoni ora avevano la punta all’insù. Ma dai nobili decaduti non ci si poteva aspettare molto. Erano restii a venire coinvolti in una rissa, e desideravano solo mangiare e bere. Il barone appoggiò un piede sulla panca, si avvolse il baffo destro attorno al dito, fissò gli occhi verso l’angolo dove sedevano gli ufficiali Grigi e dichiarò: «Ma io, signori, non ho paura neppure del diavolo! Io schiaccio gli insetti Grigi sotto le scarpe, quando li incontro!» «Che cosa sta bofonchiando quel barile di birra laggiù?» chiese a voce alta un capitano Grigio con la faccia da cavallo. Sulle labbra del barone comparve un sorriso soddisfatto. Si alzò dal tavolo impetuosamente e saltò sulla panca. Rumata aggrottò le sopracciglia e cominciò ad addentare la seconda ala di pollo. «Ehilà, bastardi Grigi dell’inferno!» gridò il barone come se gli ufficiali fossero lontanissimi. «Sia chiaro che io, Barone Pampa, Don Bau, ho dato una bella lezione a dei tipi come voi tre giorni fa. Sai, amico mio» si voltò e parlò dall’alto a Rumata sempre seduto a tavola «ho fatto qualche bevutina con Padre Kabani l’altra sera, al castello. Improvvisamente il mio stalliere corre a dirmi che un’orda di Sturmovik Grigi sta per distruggere la Locanda del Ferro d’Oro. La mia locanda! Sulle mie terre! Ho dato l’ordine di andare. Siamo arrivati in un attimo. Vi giuro sui miei speroni che abbiamo trovato l’orda intera, una ventina di uomini! Avevano preso tre dei miei, si erano ubriacati come maiali (e quei bastardi non possono bere, naturalmente) e stavano giusto cominciando a sfasciare tutto quanto. Ne ho afferrato uno per la gamba, e così ho iniziato la caccia. Li ho inseguiti fino alle Spade Pesanti. Scorreva il sangue, non ci crederai amico mio, ci arrivava alle ginocchia, e non so quante asce hanno lasciato dietro di sé!» Qui il racconto del barone si interruppe. Il capitano con la faccia da cavallo aveva colpito con il pugnale la sua maglia di metallo. «Finalmente!» disse il barone, e sguainò la spada enorme. Saltò giù dalla panca con insospettabile agilità; la sua spada roteava abilmente nell’aria e urtò una trave che sosteneva il soffitto basso. Il soffitto non cedette, cadde solo un po’ d’intonaco. Nella stanza si erano alzati tutti. I nobili decaduti si tenevano vicini al muro. I giovani aristocratici salirono sui tavoli per vedere meglio. Gli ufficiali Grigi si disposero in semicerchio e sguainarono le spade, avanzando lentamente verso il barone. Solo Rumata restò seduto, cercando di pensare da che parte sarebbe stato più sicuro alzarsi in piedi senza danno. Perché ora la grande spada del barone fendeva l’aria minacciosamente, descrivendo cerchi sinistri sopra la sua testa. Era una scena prodigiosa. Il barone ricordava a Rumata un elicottero con le pale in funzione. Il barone era circondato su tre lati dagli ufficiali Grigi, che però furono costretti a fermarsi non appena giunsero a tiro della spada. Uno di loro ebbe la sfortuna di volgere la schiena a Rumata, che si sporse attraverso il tavolo, afferrò l’uomo indifeso per il collo e lo sbatté sul tavolo tra i piatti sporchi con un colpo ben assestato dietro l’orecchio. L’ufficiale chiuse gli occhi e si irrigidì. Il barone urlò: «Tagliagli la gola, nobile Rumata! Io finirò gli altri!» «Farà un massacro» pensò il giovane, a disagio. «Attenzione!» gridò agli ufficiali Grigi. «Perché dobbiamo rovinarci la serata a vicenda? Non avete la minima possibilità contro di noi. Gettate le armi e andatevene!» «No di certo!» obiettò il barone, visibilmente contrariato. «Voglio battermi! Voglio che si battano! In guardia, disgraziati!» Così dicendo avanzò verso i Grigi, continuando a roteare la spada sempre più velocemente. Gli ufficiali indietreggiarono impallidendo. Chiaramente era la prima volta che vedevano un elicottero. Rumata balzò sul tavolo. «Fermo, amico mio!» gridò. «Non c’è ragione di litigare con questa gente. Se non ti va di vederli qui, di’ loro di andarsene». «Non ce ne andremo senza le nostre armi» borbottò uno dei tenenti. «Ci punirebbero. Siamo di pattuglia, ora». «Andate al diavolo e prendetevi le vostre armi!» disse Rumata. «Rinfoderate le spade, mani sulla testa. Uscite uno alla volta, senza scherzi! O vi faccio a pezzi!» «Come facciamo a uscire?» chiese il capitano con la faccia da cavallo. Contrasse il labbro superiore in una smorfia irritata. «Quest’uomo ingombra il passaggio!» «E continuerò a farlo!» insistette il barone, ostinato. I giovani aristocratici sorrisero sprezzanti. «Va bene, allora» disse Rumata. «Io lo terrò, e voi uscite uno dopo l’altro, ma di corsa. Non sarò in grado di controllarlo per molto. Ehi, lascia libero il passaggio! Barone!» disse, afferrando Pampa per la vita. «Mi sembra che tu abbia dimenticato una cosa importante. Questa famosa spada era usata dai tuoi avi solo in battaglia, perché sta scritto: ‘Non sguainare la spada nelle taverne!’« L’espressione di Pampa fu attraversata dall’ombra di un dubbio, mentre continuava a roteare la spada. «Ma non ho con me un’altra spada» disse confuso. «A maggior ragione…» rispose enfaticamente Rumata. «Lo pensi davvero?» Il barone era ancora esitante. «Conosci meglio di me le regole!» «È vero. Hai ragione». Si guardò le mani. «Non ci crederai, Don Rumata, ma potrei continuare così per altre tre o quattro ore senza fermarmi. E non mi sentirei neppure stanco. Peccato che lei non possa vedermi adesso!» «Glielo racconterò, sta’ sicuro». Il barone abbassò la spada sospirando. Gli ufficiali Grigi uscirono dalla stanza. Il barone li seguì con lo sguardo. «Non so, non so» disse indeciso. «Pensi davvero che abbia fatto bene a non farli a pezzi?» «Hai fatto benissimo» lo rassicurò Rumata. «Be’, visto che non abbiamo avuto la fortuna di batterci, facciamoci portare qualcosa di decente da mangiare e da bere» disse allora rinfoderando la spada. Prese per le gambe il tenente Grigio, ancora svenuto, e lo tirò giù dal tavolo, gridando: «Ehilà, oste! Portaci un po’ di vino e un boccone!» I giovani aristocratici si avvicinarono al tavolo per congratularsi umilmente con loro. «Non è niente, è stato facile!» disse con compiacenza il barone. «Sei femminucce, vigliacchi come tutti i bottegai. Ne ho fatti fuori due dozzine, al Ferro d’Oro, li ho cacciati via… Per fortuna» disse a Rumata «non avevo con me la spada da guerra! Avrei potuto usarla, distratto come sono. Anche se il Ferro d’Oro non è proprio una taverna, solo un’osteria d’angolo…» «Qualcuno dice anche» disse Rumata «che sta scritto: ‘Non sguainare la spada nelle osterie d’angolo’…» La moglie dell’oste portò della carne e del vino. Il barone si rimboccò le maniche e si mise all’opera. «A proposito» disse Rumata «chi erano i tre prigionieri che hai liberato quella volta al Ferro d’Oro?» Il barone smise di masticare e guardò Rumata. «Ma caro amico, forse non mi sono spiegato. Non ho liberato nessuno. Certo, erano tutti prigionieri, erano stati arrestati, ma quello era affare del governo. Perché avrei dovuto liberarli? Era solo un vecchio signore, un gran codardo, un vecchio topo di biblioteca con il suo servo…» Si strinse nelle spalle. «Sì, certo» disse Rumata. Improvvisamente il barone divenne rosso e roteò gli occhi in modo spaventoso. «Cosa? Ancora?» ringhiò. Rumata si voltò. Don Ripat era sulla porta. Il barone balzò in piedi, rovesciando le panche e i piatti. Don Ripat lanciò uno sguardo significativo a Rumata e lasciò di nuovo la stanza. «Chiedo scusa, barone» disse Rumata alzandosi in piedi. «Il servizio mi chiama». «Diamine» mormorò deluso il barone. «Mi spiace per te. Io in questo modo non servirei mai nessuno!» Don Ripat lo aspettava fuori. «Novità?» chiese Rumata. «Due ore fa» annunciò Don Ripat in tono ufficiale «ho messo agli arresti Donna Okana, obbedendo agli ordini del nostro ministro della Sicurezza Interna. L’ho fatta portare nella Torre della Gioia». «Mmh» si limitò a dire Rumata. «È morta due ore fa. Non è sopravvissuta alla tortura». «Mmh». «Ufficialmente era accusata di spionaggio. Ma…» Don Ripat sembrava imbarazzato e guardava per terra. «Io penso… Credo che…» «Capisco» disse Rumata. Don Ripat lo guardò con espressione colpevole. «Ero impotente…» cominciò a dire. «Questo non vi riguarda» disse bruscamente Rumata. Gli occhi di Don Ripat si fecero plumbei. Rumata gli fece un cenno impercettibile e tornò al suo tavolo. Il barone aveva appena terminato un piatto di molluschi. «Vino estoriano! A fiumi!» Rumata non riusciva quasi a parlare. Cercava di inghiottire il nodo che aveva in gola. «E adesso divertiamoci! All’inferno tutto quanto!» Quando Rumata tornò in sé si ritrovò in mezzo a un terreno deserto. Albeggiava; in lontananza i galli cantavano rauchi. Stormi di uccelli neri gracchiavano sopra di lui, volteggiando intorno a qualcosa di sgradevole. Tutto puzzava di marcio. La nebbia che aveva in testa si dissolveva velocemente, e presto riacquistò la solita lucidità. Sulla lingua gli sembrava di sentire un piacevole gusto di menta. Le dita della mano destra gli facevano male. Rumata sollevò il pugno destro, contratto. La pelle intorno al polso era arrossata. Aprì il polso e vide che stava ancora stringendo una fiala vuota di Casparamid, il potente farmaco contro le intossicazioni etiliche in dotazione come misura precauzionale a tutti gli emissari inviati sui pianeti extraterrestri dai vari istituti. Apparentemente aveva dato retta a un istinto cieco e si era versato in bocca l’intero contenuto della fiala prima di sprofondare nell’incoscienza su quel terreno deserto. L’ambiente gli sembrava familiare. Lo scheletro carbonizzato della torre dell’osservatorio si ergeva nel cielo, e a sinistra delle rovine le torri di guardia del palazzo reale, sottili come minareti, trafiggevano la pallida luce del giorno. Rumata respirò profondamente l’aria fredda e umida e si avviò verso casa. Il barone Pampa aveva passato una notte magnifica, proprio come piaceva a lui. Accompagnato da un gruppetto di nobili squattrinati, facilmente inclini a perdere la loro dignità, era partito per una colossale spedizione attraverso le taverne più malfamate di Arkanar, dove aveva inghiottito quantità incredibili di alcol, compiuto imprese memorabili di ghiottoneria e si era fatto coinvolgere in otto risse. Almeno questo era il numero di volte in cui Rumata ricordava chiaramente di essere intervenuto per separare i contendenti ed evitare che accadesse il peggio. Il resto era come immerso in una specie di foschia. Di tanto in tanto la foschia si diradava, e ne emergevano volti bestiali e minacciosi, con il pugnale tra i denti, poi il viso stupefatto e amareggiato dell’ultimo dei nobili squattrinati che Don Pampa aveva cercato di vendere come schiavo nella zona del porto, poi un irukano dal naso bitorzoluto e gli occhi cattivi che, fremente di rabbia, chiedeva ai nobili signori che gli restituissero il cavallo. All’inizio Don Rumata era rimasto in disparte. Non aveva bevuto meno del barone: vino irukano, estoriano, soaniano e arkanariano, ma tutte le volte che cambiava tipo di vino ingoiava di nascosto una fiala di Casparamid. Aveva mantenuto la lucidità e aveva notato che le pattuglie Grigie stazionavano in numero maggiore del solito agli incroci e presso i ponti; poi avevano incontrato un posto di blocco di barbari a cavallo, da qualche parte sulla strada di Soan, che avrebbero probabilmente sparato al barone se Don Rumata non avesse saputo parlare il loro dialetto. Ricordava chiaramente il pensiero che gli aveva attraversato la mente di fronte alle file immobili di strani soldati vestiti di lunghe tuniche con il cappuccio, che si erano fermati di fronte alla Scuola Patriottica. «Non è la guardia dei monaci? Cosa c’entra qui la chiesa?» si era chiesto. «Da quando in qua la chiesa si occupa di affari secolari?» Si era ubriacato molto gradualmente, ma a un certo punto era stato sopraffatto dall’intossicazione. In un momento fuggevole di lucidità aveva notato un tavolo completamente distrutto in una stanza sconosciuta, la sua mano che brandiva una spada e le figure pietose dei nobili decaduti che lo circondavano. Aveva quasi pensato che fosse ora di tornare a casa, ma a quel punto era ormai troppo tardi. Era stato sommerso da un’ondata di rabbia folle e da una gioia irresistibile e disgustosa al pensiero di essere capace, per una volta, di dimenticare ogni traccia di umanità. Nondimeno, era rimasto un terrestre e un emissario dell’Istituto, un discendente dell’uomo, padrone del ferro e del fuoco, che non si risparmia e non si ferma di fronte a una meta più grande da raggiungere. Non poteva essere solo Rumata di Estoria, discendente di venti generazioni di guerrieri famosi per le rapine e la passione per il vino. Ma non era più neppure un comunardo, un compagno. Non aveva sentito più obblighi verso il grande Esperimento. Gli interessavano solo gli obblighi verso se stesso. E non era più attanagliato dai dubbi. Tutto gli era sembrato chiaro, chiarissimo. Aveva capito chi era il colpevole di tutto e cosa doveva fare: lasciarsi andare ciecamente, gettarsi nel fuoco, giù dalle scale del palazzo, verso le lance e le forche della folla impazzita… Sguainò le spade. Sulle lame c’erano delle macchie. Ricordava vagamente di essersi battuto. Ma con chi? E come era andata a finire? Si erano bevuti anche i cavalli. I nobili decaduti si erano qualche modo dileguati. Rumata aveva riportato a casa il barone. Pampa Don Bau era arzillo, apparentemente sobrio, pronto a continuare la divertentissima serata, solo che non si reggeva più in piedi. Inoltre, per qualche oscura ragione, era convinto di aver appena salutato la sua amata baronessa e di aver iniziato una campagna contro il suo arcinemico Barone Kaska, che aveva già avuto l’audacia di commettere gli atti più oltraggiosi. «Giudica tu, mio caro amico, questo mascalzone ha generato un bambino con sei dita e lo ha chiamato Pampa…» «Il sole sta per tramontare» aveva detto osservando un arazzo che rappresentava un’alba. «Potremmo bere per tutta la notte, signori, ma abbiamo bisogno di un po’ di sonno prima della battaglia. E non un goccio di vino fino ad allora! Ma tanto alla baronessa non importerebbe». «Cosa? Un letto? Letti in un campo di battaglia? Il nostro letto è la sella del nostro destriero». Con quelle parole aveva strappato l’arazzo dal muro, se l’era avvolto intorno al corpo ed era inciampato rumorosamente nell’angolo sotto il candeliere. Rumata aveva ordinato a Uno di portare al barone un barile di cetrioli e uno di crauti. Il ragazzo era assonnato e irritato. «Ecco! Si è coperto con il nostro bell’arazzo» aveva brontolato. «Gli occhi che guardano senza vedere…» «Silenzio, sciocco» gli aveva detto Rumata, e… poi era accaduto qualcosa. Una cosa molto volgare, che lo aveva ricacciato fuori e gli aveva fatto attraversare la città fino a quel terreno deserto. Una cosa molto, molto meschina, triste, imperdonabile, imbarazzante. Il ricordo di quell’azione angosciante si risvegliò mentre si avvicinava a casa. Si fermò. Aveva spinto Uno da parte, aveva salito le scale, aperto la porta e si era gettato su di lei. Era il suo padrone. E alla luce del lampione aveva visto il suo viso bianco e i suoi grandi occhi pieni di terrore e di disgusto. In quegli occhi si era visto barcollante, con il labbro inferiore cadente, la pelle del polso a brandelli e tutto sporco. Aveva visto una canaglia di sangue blu, vile e bestiale. E lo sguardo di lei lo aveva respinto indietro, giù per le scale, nell’atrio, fuori nella strada, la buia strada notturna, sempre più lontano, il più lontano possibile… Digrignò i denti, mentre dentro si sentiva contorcere e gelare, poi aprì piano la porta ed entrò. Il barone dormiva placidamente in un angolo, russando come un ghiro. «Chi è?» disse Uno, che si era appisolato su una panca con una lancia sulle ginocchia. «Zitto!» mormorò Rumata. «Va’ in cucina e portami un secchio d’acqua, dell’aceto e dei vestiti puliti. Sbrigati!» Per un po’ si versò addosso l’acqua, strofinandosi con piacere con l’aceto, ripulendosi dalla sporcizia delle sue gozzoviglie e dei suoi duelli notturni. Diversamente dal solito, Uno restò sempre zitto. Solo quando lo aiutò ad abbottonarsi i ridicoli calzoni lilla con le fibbie gli disse cupamente: «Questa notte, dopo che è corso via, Kyra è scesa a chiedere se il padrone era tornato o no, ma poi ha detto che doveva avere sognato. Le ho detto che lei non era ancora rientrato dal servizio di guardia al palazzo, dove eravate andato…» Rumata sospirò e si voltò. Ma ciò non gli era di grande aiuto. Anzi, peggiorava le cose. «Sono stato seduto accanto al barone tutta la notte con la lancia pronta sulle ginocchia. Avevo paura che cercasse di salire di sopra mentre era ubriaco». «Grazie, piccolo, grazie» sussurrò tristemente. Infilò le scarpe, entrò nello spogliatoio e si guardò nello specchio di metallo scuro. Il Casparamid funzionava. Molto efficacemente. Lo specchio rifletteva l’immagine di un signore elegante dal viso leggermente affaticato dopo la lunga guardia. Comunque molto dignitoso. I capelli umidi, stretti dal cerchietto d’oro, gli incorniciavano ordinatamente il viso. Con un gesto automatico, Rumata aggiustò la lente sulla fronte. «Che belle cose vedono oggi sulla Terra» pensò malinconicamente. Intanto si faceva giorno. Il sole cominciava a filtrare dalle finestre polverose. Le persiane sbattevano. Per strada si sentivano voci assonnate. «Hai dormito bene, fratello Kiris?» «Molto bene, fratello Tika, sia ringraziato il Signore. La notte è passata, grazie a Dio». «Qualcuno ha bussato alle finestre di casa nostra. Dicono che Don Rumata stanotte sia uscito». «Dicono che abbia un ospite». «E così è uscito? Dev’essere andato dal principe, e non si è neppure accorto che hanno bruciato mezza città». «Che vuoi che ti dica, fratello Tika? Grazie a Dio abbiamo come vicino un signore come lui. Una volta all’anno è di guardia, e questo è già molto». Rumata salì le scale, bussò ed entrò nello studio. Kyra era seduta in poltrona come il giorno prima. Alzò gli occhi e lo guardò in viso, inquieta e timorosa. «Buongiorno, cara» le disse. Andò verso di lei, le baciò le mani e si sedette nella poltrona di fronte. Lei lo guardò un attimo con espressione interrogativa e poi chiese: «Sei stanco?» «Sì, un po’. E oggi devo uscire di nuovo». «Vuoi che ti prepari qualcosa?» «No, grazie. Se ne occuperà Uno. Be’… Potresti stirarmi il colletto…» Rumata sentiva che tra di loro stava alzandosi un muro di bugie. Prima sottile, poi più spesso e sempre più solido. «Per il resto della nostra vita!» pensò amaramente Rumata. Rimase seduto e si coprì gli occhi con le mani, mentre lei gli strofinava varie lozioni e profumi sul collo robusto, sulla fronte e sui capelli. Poi disse: «Non mi chiedi neanche come ho dormito». «Come hai dormito, cara?» «Ho sognato. Un incubo terribile. Sai cosa vuol dire?» Il muro si fece spesso come quello di una fortezza. «Succede spesso quando si è in un posto nuovo» disse Rumata, ipocritamente. «Il barone deve aver creato un po’ di trambusto». «Devo ordinare la colazione?» «Va bene». «Che vino vuoi, la mattina?» Rumata aprì gli occhi. «Vorrei dell’acqua. La mattina non bevo». Lei uscì e Rumata la sentì parlare con Uno. La sua voce era chiara e decisa. Poi tornò, si sedette sul bracciolo della poltrona e cominciò a raccontargli il sogno. Lui l’ascoltava, tormentandosi le sopracciglia e sentendo il muro che s’ispessiva e diventava sempre più inattaccabile, separandolo per sempre dall’unico essere umano che amava e stimava in quel mondo orribile. E, improvvisamente, si gettò contro quel muro. «Kyra» disse. «Non è stato un sogno». E non accadde nulla di straordinario. «Povero caro» disse lei. «Aspetta, vado a prenderti dei sottaceti…» Capitolo V Una volta, non troppo tempo prima, quella dei re irukani era stata una corte particolarmente attenta alla raffinatezza e alla cultura. Vi erano accolti vari studiosi, per la maggior parte ciarlatani, naturalmente, ma anche uomini come Bagir Kissenskij, lo scopritore della curvatura del pianeta, o il medico reale Tata, che aveva avuto la brillante intuizione che le epidemie fossero causate da piccolissimi vermi invisibili diffusi dall’acqua e dall’aria, oppure l’alchimista Synda che, come tutti gli altri, cercava il modo di trasformare i rifiuti in oro e casualmente aveva scoperto la legge della conservazione dell’energia. Alla corte arkanariana si trovavano anche poeti. Anche se in maggioranza si trattava di sicofanti e di parassiti, c’era anche Pepin il Grande, autore della tragedia storica La campagna nordica; c’era Zuren il Giusto, che aveva scritto più di cinquecento ballate e sonetti divenuti poi patrimonio popolare; c’era infine il poeta Gur, che aveva scritto il primo romanzo laico nella storia del regno, la triste storia di un principe che si era innamorato di una bella barbara. A corte erano ospitati anche grandi artisti, ballerini e cantanti-Pittori eccelsi avevano dipinto i muri con affreschi immortali, e famosi scultori avevano adornato i parchi della dimora reale con le loro creazioni. Ciononostante, non si poteva dire che i re arkanariani fossero veri mecenati dell’arte e della scienza, e neppure degli esperti. Tutto ciò era considerato decorativo, come la cerimonia che accompagnava il risveglio del Re o gli spettacolari ufficiali della guardia all’entrata del castello. L’indulgenza dei monarchi a volte si estendeva al punto di permettere ad alcuni scienziati e poeti di diventare piccoli ingranaggi della macchina statale. Così, per esempio, solo cinquant’anni prima l’alchimista Botsa aveva ricoperto l’incarico di ministro del Dipartimento Minerario, carica eliminata da tempo perché non più necessaria. In quella funzione aveva aperto molte nuove miniere e reso famosa Arkanar per le sue leghe di alta qualità. Sfortunatamente, le formule segrete di Botsa erano andate perdute dopo la sua morte. Il poeta Pepin aveva presieduto fino a non molto tempo prima il programma educativo statale, ma poi il ministero della Storia e delle Scienze Linguistiche era stato dichiarato dannoso per la salute mentale, perché si sapeva che aveva causato la disintegrazione delle menti umane. Per quanto a volte fosse successo che la favorita del Re, qualche donna ottusa e svenevole, si fosse interessata a qualche particolare scienziato o artista fino al punto di farlo vendere come schiavo o avvelenare con l’arsenico, era stato Don Reba a sposare la causa fino in fondo e con piacere. Durante il suo regno, in qualità di onnipotente ministro della Sicurezza per la Protezione della Corona, aveva organizzato persecuzioni tanto violente contro gli intellettuali da provocare le proteste di alcuni nobili, i quali si erano lamentati che la vita di corte stava diventando sempre più noiosa e che ai balli si ascoltavano solo stupidi pettegolezzi. Bagir Kissenskij era stato accusato di follia rasentante il tradimento e perciò rinchiuso nei sotterranei. Solo grazie agli sforzi di Rumata era stato rilasciato e aveva potuto tornare nella capitale. L’osservatorio di Bagir era stato bruciato, e quei pochi allievi che erano scampati all’incendio erano fuggiti il più lontano possibile. Il medico reale Tata e altri cinque ciarlatani si erano rivelati improvvisamente avvelenatori che sobillavano il Duca di Irukan contro il Re. Tata aveva confessato tutto sotto tortura ed era stato pubblicamente impiccato nella Piazza Reale. Nel tentativo di salvare Tata, Rumata aveva speso trenta pud d’oro, aveva perso quattro dei suoi agenti, nobili all’oscuro di tutto, ed era giunto a un passo dalla morte cercando di rapire il condannato. Quella era stata la sua prima grande sconfitta. E allora finalmente aveva capito che Don Reba non aveva agito a caso. Una settimana dopo aveva saputo che l’alchimista Synda era stato citato in giudizio per aver sottratto la pietra filosofale dal tesoro statale. Rumata era ancora furioso per la precedente sconfitta e quindi aveva deciso di prendere in mano la questione direttamente. Appostato vicino alla casa dell’alchimista, si era coperto il volto con una maschera nera e aveva disarmato personalmente gli Sturmovik che stavano portando Synda in prigione. Aveva rinchiuso gli Sturmovik nella cantina della casa di lui, che non aveva la più pallida idea di quello che gli stava accadendo, e gli aveva fatto attraversare il confine soaniano. Là, dopo un periodo di disorientamento, l’alchimista aveva continuato la sua ricerca della pietra filosofale sotto la supervisione di Don Kondor. Il poeta Pepin aveva improvvisamente indossato il saio e si era ritirato in un monastero lontano. Zuren il Giusto era stato smascherato di recente. Era ritenuto colpevole di aver pronunciato frasi criminosamente ambigue, e in seguito era stato condannato per aver cercato di accontentare i gusti delle classi inferiori. Dicevano che avesse rinunciato al suo onore e al suo denaro. Lui aveva cercato di far valere i propri diritti recitando delle ballate apertamente sovversive in certe locande di malaffare, ed era stato picchiato selvaggiamente due volte da gruppi di patrioti. Solo allora si era lasciato convincere dal suo amico e mecenate Don Rumata a fuggire dalla capitale. Rumata non avrebbe mai potuto scordare la partenza del poeta: pallido, triste, completamente ubriaco, stringeva il parapetto della nave urlando il suo sonetto d’addio con voce sonora e sorprendentemente giovanile: «Pesan sull’anima mia come foglie morte… «Per quanto riguardava il poeta Gur, era stato informato da Don Reba in un colloquio privato che il Principe di Arkanar non poteva assistere la sua famiglia, data l’ostilità che lui esprimeva nelle sue poesie. In seguito Gur aveva gettato personalmente le proprie opere in un falò sulla Piazza Reale. Da allora, ogni volta che il Re si compiaceva di fare una passeggiata a cavallo, Gur era in mezzo ai cortigiani con la testa china e pallido in viso; quando Don Reba gli faceva un cenno impercettibile usciva dal gruppo e recitava poesie ultrapatriottiche, accolte però solo con malcelati sbadigli. A teatro veniva rappresentato sempre lo stesso dramma: La caduta dei barbari, ovvero il Maresciallo Totz, Re Pitz di Arkanar. I concerti ormai si limitavano generalmente a esecuzioni musicali di canzoni. I pittori sopravvissuti dipingevano insegne e cartelli. Due o tre dei migliori riuscirono addirittura a restare a corte, dove eseguivano un ritratto dopo l’altro del Re e di Don Reba (che sosteneva sempre il Re con sollecitudine e rispetto). Il Re era sempre rappresentato come uno splendido ventenne, mentre Don Reba era ritratto come un uomo maturo dall’espressione molto Profonda. La vita alla corte di Arkanar si era fatta veramente noiosissima. Nondimeno gli aristocratici, i gentiluomini senza occupazioni, gli ufficiali della guardia e le amanti frivole dei nobili riempivano le anticamere e i salotti del palazzo come un tempo: un po’ per vanità, un po’ per paura. A essere sinceri, molti non si erano accorti dei cambiamenti. Erano le stesse persone che una volta, quando erano costrette ad assistere ai concerti o alle serate di poesia, apprezzavano molto l’intervallo. Non vedevano l’ora che arrivasse per discutere dei meriti delle varie razze di cani da caccia o raccontarsi storielle. Erano magari capaci di partecipare a qualche breve discussione sulla sopravvivenza dell’anima dopo la morte, ma già questioni come la forma dei pianeti o le cause delle epidemie erano considerate sconvenienti. Gli ufficiali della guardia provarono una certa nostalgia per i pittori; il loro realismo naturalista aveva prodotto tanti capolavori… Rumata arrivò a palazzo un po’ troppo tardi. La cerimonia della toilette del Re era già iniziata. Le stanze erano piene, e si sentiva la voce irritata del sovrano che copriva quella melodiosa del maestro di cerimonia, che presiedeva alla vestizione formale di Sua Maestà. I cortigiani discutevano degli avvenimenti della notte passata. Un criminale, probabilmente irukano, si era introdotto nottetempo nel palazzo, aveva ucciso le guardie ed era giunto fino alla camera da letto reale. Là, si diceva, era stato disarmato e catturato da Don Reba in persona. Mentre lo portavano alla Torre della Gioia era stato fatto a pezzi da un gruppo di patrioti la cui lealtà verso il Re li aveva fatti impazzire di rabbia. Era il sesto attentato in un mese, e quell’ultimo incidente non aveva suscitato particolare interesse. La discussione verteva solo sui dettagli. Rumata venne a sapere che Sua Maestà, alla vista dell’assassino aveva protetto con il suo corpo la bella Donna Midara, pronunciando la storica frase: «Vattene, ribaldo!» Molti cortigiani erano disposti a credere che la frase fosse stata realmente pronunciata, ma ritenevano che il Re l’avesse detta scambiando l’assassino per un servitore. Tutti erano sicuri che Don Reba fosse stato in guardia come sempre, ed era invincibile nei combattimenti corpo a corpo. Rumata si dichiarò d’accordo e raccontò un aneddoto inventato al momento: Don Reba era stato attaccato da dodici banditi, ne aveva uccisi tre sul colpo e sbaragliato gli altri. Il racconto fu accolto con estremo interesse e approvato vivacemente, solo che Rumata disse incidentalmente che lo aveva sentito da Don Sera. Dai visi degli ascoltatori sparì subito ogni traccia d’interesse, perché era risaputo che Don Sera era un bugiardo e un imbroglione. Su Donna Okana non si disse una parola. Forse non avevano ancora avuto la notizia, oppure fingevano di non sapere niente. Facendo osservazioni spiritose e baciando con galanteria la mano alle dame, Rumata si fece largo, passo dopo passo, tra la folla di gente agghindata, profumata e sudata, raggiungendo la prima fila. I nobili parlavano a bassa voce: «Eh, sì! Che pezzo di figliola! Lei aveva cercato di barricarsi dentro, ma se lui non l’avesse persa a carte quella notte e non l’avesse ceduta a Don Ke…» «E aveva dei fianchi di forma squisita. Come diceva Zuren… Hm, hm, hm… ‘montagne di fresca schiuma’… Hm, hm, hm… No, ‘colline di fresca schiuma’… Insomma, aveva dei bei fianchi». «Così apro la finestra piano piano, prendo il pugnale tra i denti, e pensa un po’, sento cedere la grata della finestra sopra di me… L’ho colpito con l’elsa della spada in mezzo ai denti, e il vecchio cane ha fatto due giri su se stesso. A proposito, eccolo là; crede di essere il padrone del mondo… E Don Tameo ha sputato sul pavimento, è scivolato e ha battuto il naso sul camino…» «Allora il monaco le dice: ‘Raccontami il sogno’. Ha, ha, ha!» «Che nausea» pensò Rumata. «Se qualcuno mi facesse fuori in questo momento, questi imbecilli sarebbero l’ultima cosa che avrei visto nella vita. Solo la prontezza di spirito può salvarmi. E salvare Budach. Aspettare il momento giusto e coglierlo di sorpresa, in modo che non abbia tempo di aprire bocca! Ma non devo dare loro la possibilità di prendermi. Non c’è motivo di morire qui». A passi misurati avanzò verso la porta della camera reale, toccò le spade con tutt’e due le mani, piegò leggermente le ginocchia secondo l’etichetta di corte e si avvicinò al letto del Re. Gli stavano giusto infilando le calze. Il maestro di cerimonia seguiva con il fiato sospeso ogni movimento delle mani abili dei due maggiordomi. A destra, in un’alcova, Don Reba parlava a bassa voce con un uomo alto e ossuto in uniforme di velluto grigio. Era Padre Zupik, uno dei capi degli Sturmovik, colonnello della Guardia del Corpo reale. Don Reba era un cortigiano molto esperto. A giudicare dalla sua espressione, in quel momento pensava al nasino di qualche ragazza o alla condotta virtuosa della nipote del Re. Padre Zupik, invece, soldato ed ex droghiere, non si sapeva controllare. Si fece scuro in viso, si morse le labbra, strinse l’elsa della spada e la lasciò improvvisamente. Infine, storcendo il viso, si voltò di scatto e, violando tutte le regole dell’etichetta, uscì dalla camera reale diretto verso l’assemblea dei cortigiani, impietriti da tanta maleducazione. Don Reba lo guardò con un sorriso innocente, mentre Rumata seguiva la goffa figura grigia pensando: «Un altro uomo morto. Si ricomincia!» Sapeva dei contrasti fra Don Reba e i capi dei Grigi. La storia stava per ripetersi. Un altro stava per condividere la sorte del capitano nazista Ernst Roehm. Ora le calze erano infilate sulle gambe del Re. Seguendo le direttive melodiose del maestro di cerimonia i maggiordomi reali stavano prendendo gli scarpini con la punta delle dita quando, improvvisamente, il Re li prese a calci e si voltò con tanta foga verso Don Reba che la pancia gli cadde sulle ginocchia come un sacco di patate. «Sono stufo dei vostri attentati!» urlò istericamente. «Assassini, assassini, assassini! Io di notte voglio dormire, non battermi contro gli assassini! Perché non possono assalirmi di giorno? Siete un ministro inefficiente, Reba. Un’altra notte come questa e vi farò giustiziare». Don Reba si inchinò, mettendosi una mano sul cuore. «Questi attentati mi fanno venire il mal di testa!» Di colpo si zittì, osservandosi tranquillamente la pancia. Il momento sembrava favorevole. I maggiordomi esitavano. Doveva attirare l’attenzione del Re. Rumata strappò la scarpa destra dalle mani del maggiordomo, s’inginocchiò davanti a Sua Maestà e spinse con riverenza la scarpa sul suo grosso piede calzato di seta. Quello di calzare di propria mano il piede destro delle teste coronate era un antichissimo privilegio della casa dei Rumata. Il Re gettò su di lui uno sguardo vacuo, e improvvisamente nei suoi occhi si accese una scintilla d’interesse. «Ah, Rumata!» esclamò. «Siete ancora vivo? Reba mi aveva promesso che si sarebbe sbarazzato di voi». Sogghignò. «Che ministro incapace, quel Reba. Promette, promette, ma è tutta una finta. Aveva promesso di stroncare le cospirazioni, ma queste sono diventate sempre più frequenti. E quei mostri Grigi che ha introdotto nel palazzo… Io sono un uomo malato, e lui fa impiccare tutti i miei medici personali». Rumata aveva finito di infilare la scarpa. S’inchinò e fece due passi indietro. Colse lo sguardo attento di Don Reba e si sforzò di assumere un’espressione ottusa e sdegnosa. «Sono un uomo molto malato» continuò il Re. «Tutto mi fa male. Vorrei godermi l’eterno riposo. Lo avrei fatto da molto tempo, ma voi andreste tutti in rovina senza di me, porci…» Gli stavano ora infilando l’altra scarpa. Il Re si alzò in piedi ma cominciò subito a gemere per il dolore e si afferrò le ginocchia. «Dove sono i miei medici, i miei guaritori?» urlò. «Dov’è il mio buon Tata? Lo avete impiccato, imbecille! E io mi sarei sentito meglio al solo suono della sua voce! Zitto! Lo so che era un avvelenatore. Ma che importava? Preparasse pure i suoi veleni! Era un medico, un bravo dottore! Lo capite, assassino? Avrà pure avvelenato qualcuno, ma altri li curava. Ma voi strozzate tutti quelli su cui riuscite a mettere le mani. Vorrei che vi foste impiccato voi, invece di impiccare lui!» Don Reba s’inchinò, si mise una mano sul cuore e restò in quella posizione. «Li avete fatti impiccare tutti! Non è rimasto nessuno, solo i ciarlatani. E i preti mi danno l’acqua santa invece delle medicine… Adesso che Tata è morto, chi mi preparerà le medicine? Chi mi spalmerà l’unguento sul piede?» «Mio Re!» Rumata parlava a voce alta e chiara, e aveva l’impressione che tutto il palazzo fosse paralizzato dall’orrore. «Dovete solo ordinarlo, e il miglior medico del regno sarà qui entro un’ora!» Il Re lo guardò perplesso. Il rischio era terribile. A Don Reba sarebbe bastato battere ciglio… Rumata sentiva con tutto il corpo quanti occhi lo stavano fissando, pronti ad attaccarlo in qualunque momento. Conosceva anche lo scopo delle file di buchi rotondi appena visibili sotto il soffitto della camera da letto. Don Reba lo guardò con un’espressione gentile e di benevola curiosità. «Che significa?» chiese diffidente il Re. «Bene, allora, ve lo ordino: dov’è il vostro guaritore?» Rumata cominciò a irrigidirsi. Sentiva quasi le punte delle frecce nella schiena. «Sua Maestà» disse velocemente. «Vi prego, ordinate a Don Reba di chiamare il famoso dottor Budach». Incredibile! Aveva detto la cosa più importante ed era ancora vivo! Don Reba aveva ancora qualche dubbio sulla sua posizione in quell’affare? Il Re guardò stancamente il suo ministro della Sicurezza Interna. «Sua Maestà» continuò Rumata, ora senza fretta e con tono deciso. «Avendo saputo delle sue insopportabili sofferenze, e conscio dei doveri della mia famiglia verso la Casa reale, avevo convocato qui da Irukan il famosissimo dottor Budach. Disgraziatamente il viaggio del dottore è stato interrotto. I soldati del nostro onorevole Don Reba lo hanno catturato la settimana scorsa, e da allora solo Don Reba conosce il suo destino. Presumo che il medico sia nelle vicinanze, probabilmente nella Torre della Gioia. Posso solo sperare che l’odio particolare che Don Reba nutre per i medici non abbia ancora avuto un effetto irreversibile sull’incolumità del dottor Budach». Rumata tacque, trattenendo il respiro. In apparenza, tutto stava filando liscio. Guardò brevemente in direzione di Don Reba e si sentì raggelare. Il ministro della Sicurezza Interna si controllava benissimo. Fece un cenno a Rumata, un rimprovero tenero e paterno. Era l’ultima cosa che si aspettava da lui. «Sembra trionfante» pensò, confuso. Il Re, d’altro canto, si comportava come previsto. «Ribaldo!» gridò. «Ti torcerò il collo! Dov’è il dottore? Dov’è il dottore, ti dico!» Reba fece un passo avanti, sorridendo. «Sua Maestà, lei è davvero un monarca fortunato, perché ha sudditi tanto devoti da interferire a volte l’uno con l’altro nel desiderio di servirvi». Il Re lo fissava con occhi vuoti, senza capire. «Non vi nascondo che conoscevo bene le nobili intenzioni del nostro zelante Don Rumata, come del resto tutti nel vostro regno. Non vi nascondo che ho mandato i nostri soldati Grigi a incontrare il dottor Budach al solo scopo di proteggerlo dai pericoli di un lungo viaggio. Né intendo nascondere che non avevo fretta di portare Budach, l’irukano, davanti a Sua Maestà…» «Come osa?» «Sua Maestà, Don Rumata è giovane e tanto abile nella nobile arte del duello quanto inesperto di politica. Perciò è del tutto ignaro, naturalmente, di che cosa sia capace il Duca di Irukan nella sua malvagità e nel suo odio contro Sua Maestà. Ma lei e io, noi due, naturalmente lo sappiamo, vero?» Il Re fece un cenno di assenso. «E per questo mi è sembrato consigliabile condurre qualche ricerca, solo in via precauzionale. Non avrei voluto far precipitare le cose, ma se lei, mio Re (inchino profondo), e lei, Don Rumata (un cenno impercettibile), insistete tanto, farò venire il dottor Budach oggi stesso, dopo pranzo, così che possa iniziare la cura». «Non siete poi così stupido, Don Reba» disse il Re dopo aver riflettuto brevemente sulle parole del ministro. «Ricerche… Buona idea… Male non fa. Maledetto irukano…» Improvvisamente urlò di dolore e si toccò di nuovo le ginocchia. «Oh, maledetta gamba! Bene, allora subito dopo il pranzo? Dovrò aspettare, allora… Aspettare». Appoggiandosi al maestro di cerimonia il Re andò lentamente nella sala del trono, passando davanti a Rumata, completamente disorientato. Don Reba, prima di fendere la folla dei cortigiani che si era fatta da parte per lasciarlo passare, gli sorrise affabilmente e gli chiese: «È vero, Don Rumata, che stanotte sarà lei di guardia nella camera da letto del Principe? Sono stato bene informato, vero?» Rumata s’inchinò silenziosamente. Rumata vagava senza meta negli interminabili corridoi e nei passaggi del palazzo. Erano bui e umidi, e c’era puzza di ammoniaca e putrefazione. Passò davanti a saloni magnifici decorati con ricchi tappeti e arazzi, a sgabuzzini pieni di roba vecchia e mobili dalle dorature scrostate. Lì dentro era difficile incontrare qualcuno. Capitava che qualche cortigiano si perdesse e si aggirasse in quel labirinto, nelle ali retrostanti del palazzo, dove gli appartamenti reali si fondevano gradualmente con gli uffici del ministero della Sicurezza Interna. Era facile perdersi. Tutti ricordavano di quando una pattuglia della guardia, durante una ronda, era stata terrorizzata dalle urla di un uomo che stendeva le mani graffiate attraverso la finestra sbarrata di una feritoia. «Salvatemi!» urlava. «Sono un gentiluomo della corte! Non so come fare a uscire, sono due giorni che non mangio! Tiratemi fuori di qui!» Per dieci giorni vi era stato un animato scambio di lettere tra il Tesoriere e il Ciambellano, e alla fine avevano deciso di schiodare le sbarre della finestra. Intanto, il povero gentiluomo era sopravvissuto grazie al pane e alla carne che gli passavano sulla punta di una lancia. Inoltre in quei passaggi si potevano incontrare altri pericoli. Soldati ubriachi, truppe di palazzo che avevano il compito di difendere il Re, e Sturmovik ubriachi incaricati di proteggere il ministero, si scontravano in quegli stretti corridoi e ingaggiavano battaglie. Quando avevano finito di battersi si separavano e portavano via i feriti. E, infine, era lì che vagavano i fantasmi degli assassinati. Una folla considerevole di anime si era accumulata nel palazzo nel corso degli ultimi due secoli. Da una nicchia del muro vide uscire uno Sturmovik di guardia. Il soldato Grigio alzò l’ascia e disse cupamente: «Vietato entrare». «Non capisci niente, stupido!» disse Rumata, spingendolo da parte. Mentre si allontanava sentiva lo Sturmovik che sfregava gli stivali sul pavimento e pestava i piedi, incapace di decidere come reagire all’insulto. Rumata si scoprì a pensare che quel tono offensivo e quei gesti indolenti erano diventati per lui quasi una seconda natura: non faceva più soltanto finta di essere un parassita di alto lignaggio, quell’atteggiamento era diventato come una specie di riflesso automatico. Immaginò l’effetto di un tale comportamento sulla Terra e fu sopraffatto da un senso di nausea e di vergogna. «Perché lo faccio? Cosa è cambiato in me? Dove sono andati a finire il rispetto e la cordialità verso i miei simili che mi erano abituali fin da bambino? Che relazioni ho sviluppato con gli altri esseri umani, con quella meravigliosa creatura che si chiama uomo? Ormai devo essere irrecuperabile…» Un pensiero orribile gli attraversò la mente: «Io li odio e li disprezzo. Non sento pietà per loro… No, li odio e li disprezzo davvero. Anche se considero l’ottusità, la bestialità di quella montagna di carne, le circostanze sociali e la sua tremenda educazione… Posso sforzarmi il più possibile, ma ora vedo chiaramente che questo è il mio nemico, ostile a tutto quello che mi è caro, il nemico dei miei amici, il nemico di tutto quello che ho di più sacro. E non lo odio astrattamente, come rappresentante di qualcosa, ma proprio come individuo. Odio la sua bocca ripugnante e bavosa, la puzza del suo corpo sudicio, la sua fede cieca, la sua indifferenza a tutto quello che non è il bisogno sessuale o la birra. Eccolo là, l’adolescente a cui quel panzone di suo padre lisciava il pelo per insegnargli a diventare mercante di farina avariata e marmellata ammuffita. Eccolo là che geme, lo stupido, che si sforza di ricordare i paragrafi giusti delle regole che gli hanno ficcato in testa e non sa se usare la sua accetta contro il nobile o fargli ciao con la manina. Qualunque cosa decida, nessuno lo saprà mai. Allontana da sé tutto quello che gli crea dei problemi, ritorna nella sua nicchia nel muro, si mette in bocca un pezzo di scorza da masticare, si lecca le labbra e rumina come una vacca soddisfatta, sbavando come un neonato. E niente altro gli interessa. Non userà il suo cervello per niente al mondo. Che Dio lo aiuti! Ma la nostra Aquila Illuminata, Don Reba, è migliore di lui? Certo, la sua psiche è più complessa, i suoi riflessi più imprevedibili, ma i suoi pensieri somigliano a quelli di quest’individuo puzzolente di ammoniaca e a questi labirinti pieni di delitti, ed è indescrivibilmente vile, un criminale orrendo, un ragno privo di scrupoli. Sono venuto su questo pianeta per amare questa gente, per assisterla nel suo sforzo di svilupparsi, per dar loro la possibilità di vedere la luce. No, ho fallito. Come storico sono un fallimento. E quando sono caduto in quest’abisso di cui parlava Don Kondor? Un dio può avere altri sentimenti oltre alla pietà?» Dietro di sé, nel corridoio, sentì un trepestio. Si voltò e afferrò tutte e due le spade. Don Ripat correva verso di lui, brandendo la sua. «Don Rumata, Don Rumata» diceva da lontano, cercando di non urlare. Rumata lasciò andare l’elsa. Ora Don Ripat era abbastanza vicino; si guardò cautamente intorno e poi gli sussurrò all’orecchio: «È quasi un’ora che la sto cercando! Waga Koleso è nel palazzo! Sta parlando con Don Reba nella stanza lilla». Rumata socchiuse gli occhi per un momento. Poi si fece di lato, dicendo sorpreso: «Non starà parlando del famoso capobanda? Credevo che fosse stato giustiziato tempo fa, o che esistesse solo nell’immaginazione popolare». L’ufficiale si leccò le labbra screpolate. «Esiste, esiste… È qui a palazzo… Pensavo che la cosa potesse interessarle». «Mio caro Don Ripat» disse enfaticamente Rumata. «Le voci mi interessano sempre. I pettegolezzi. Gli aneddoti. La vita è così noiosa… Dovete avermi frainteso». L’altro lo guardò perplesso. Rumata continuò: «Rifletta, perché dovrei farmi coinvolgere nelle trame e nelle relazioni vischiose di Don Reba? Non dimentichi quanto apprezzo Don Reba come persona, non potrei mai condannare o criticare le sue azioni. Adesso mi scusi, vado di fretta. Una dama mi sta aspettando». Don Ripat si leccò di nuovo le labbra, s’inchinò goffamente e si fece da parte. Improvvisamente, Rumata ebbe un’ispirazione. «A proposito, amico mio» disse gentilmente «le è piaciuto il tiro che abbiamo giocato a Don Reba stamattina?» Don Ripat si fermò volentieri. «Siamo molto soddisfatti» disse. «Non è stato carino?» «È stato meraviglioso! I capi dei soldati Grigi sono molto contenti che abbiate preso le nostre parti apertamente. Un uomo intelligente come voi, Don Rumata, che perde tempo con i baroni, quei mostri titolati…» «Mio caro Ripat!» esclamò con condiscendenza Rumata, voltandosi per andarsene. «Lei sembra dimenticare che dall’alto del mio lignaggio non c’è quasi nessuna differenza tra il Re e quelli della sua razza. Addio!» Si allontanò sicuro nei corridoi, entrò senza esitazione nei vari passaggi laterali e spinse da parte le guardie senza neanche parlare. Aveva solo una vaghissima idea di come comportarsi, ma era sicuro che si trattasse di una strana coincidenza. Doveva riuscire ad ascoltare la conversazione fra i due ragni. Don Reba doveva avere delle ottime ragioni se aveva promesso una ricompensa quattordici volte maggiore a chi gli avesse portato Waga vivo. Dalle pesanti cortine lilla sbucarono due tenenti Grigi con le spade sguainate. «Salute a voi, amici» disse Don Rumata, mettendosi tra i due. «Il ministro è nei suoi appartamenti?» «Il ministro è occupato, Don Rumata» rispose uno dei due. «Allora aspetterò» disse passando fra i tendaggi. Era buio pesto, ed era impossibile distinguere qualcosa. Passo cautamente a tentoni tra le sedie, i tavoli e i candelieri di pesante ferro battuto. Poi intravide un raggio di luce impercettibile, sentì la voce tenorile di Waga Koleso che gli era familiare, e si fermò. Varie volte sentì distintamente qualcuno che respirava dietro di lui, avvolto in una nuvola di odore di aglio e di birra. Poi sentì la punta di una lancia premuta cautamente, ma senza ombra di dubbio, tra le sue scapole. «Calma, imbecille!» disse irritato ma sottovoce. «Sono io. Don Rumata». La lancia fu ritirata. Rumata spinse una sedia verso il raggio di luce, si sedette incrociando le gambe e sbadigliò così forte da farsi sentire da tutti. Poi cominciò a osservare. I due ragni si erano incontrati. Don Reba, tesissimo, era seduto con i gomiti sul tavolo e le dita intrecciate. Alla sua destra c’era un fascio di carte e in cima un pugnale con l’impugnatura di legno massiccio. Il ministro ostentava un sorriso compiaciuto, anche se un po’ rigido. L’onorevole Waga era seduto su un divano e voltava le spalle a Rumata. Somigliava a un vecchio magnate che avesse passato gli ultimi trent’anni di vita recluso nella sua casa di campagna. «Gli assassi sono cronchi, e i rompiscanchi han ritorco i nostri guarri con i loro grimi fronchi. E ci sono venti lunghi zanchi, ormai. Brollando, li paccherei proprio sul nuso, come un croppo sul crambo. Ma gli zanchi hanno un modo stranto di vrondare le cose. Ecco perché ci siamo brimbati i pronchi. È il nostro sepempio…» Don Reba appoggiò il mento sulla mano. «Surpendamente morrato» disse pensosamente. Waga si strinse nelle spalle. «Karpula è il nostro sepempio. Non mi sarei sempato che vi sareste froncato con noi. Allora, etciso?» «Etciso» disse con decisione il ministro della Sicurezza Interna. «E rassole» disse Waga, alzandosi in piedi. Rumata, che aveva ascoltato perplesso quelle assurdità, vide che Waga aveva folti baffi e una barbetta grigia a punta. Un perfetto cortigiano del Re precedente. «È stata una chiacchierata molto piacevole, Don Reba» disse Waga. Anche l’altro si alzò in piedi. «Ho apprezzato molto la conversazione, è stato davvero un grande piacere» disse. «Non ho mai incontrato un uomo coraggioso come lei, caro Koleso…» «Potrei dire la stessa cosa di lei» rispose Waga, con un’espressione un po’ annoiata. «Sono meravigliato e orgoglioso dell’audacia del primo ministro del nostro regno». Quindi si voltò e andò verso l’uscita, appoggiandosi pesantemente sul bastone. Don Reba non distoglieva lo sguardo dal vecchio. Sembrava perso nei suoi pensieri, e posò distrattamente la mano sull’impugnatura del pugnale. Immediatamente, qualcuno alle spalle di Rumata soffiò con tutte le forze e il lungo tubo azzurro di una cerbottana mirò il raggio di luce tra le cortine. Per un momento Don Reba rimase immobile ad ascoltare, poi si sedette di nuovo, aprì un cassetto, prese un fascio di carte e si mise a leggerle. Qualcuno sputò dietro Rumata e la cerbottana sparì. Era tutto chiaro. I ragni avevano trovato la soluzione. Rumata si alzò, pestò i piedi a qualcuno e lasciò la stanza lilla. Il Re pranzava in un enorme salone dal soffitto alto due piani. La tavola era stata preparata per cento persone, tra cui Don Reba, personaggi di sangue reale (una ventina di ghiottoni e ubriaconi di sangue blu), vari maestri di cerimonia, alcuni membri dell’aristocrazia locale che per tradizione erano suoi ospiti, tra cui Rumata, alcuni baroni di passaggio con quelle zuccone delle mogli, e all’estremità più lontana, la piccola nobiltà, che era stata invitata per speciali privilegi o anche senza. L’ultimo gruppo di ospiti riceveva, insieme agli inviti, il numero del posto a tavola e una serie di istruzioni: «Sedete tranquilli; il Re non ama vedere persone che si dimenano sulla sedia. Tenete le mani appoggiate sulla tavola; il Re non ama vedere persone che tengono le mani sotto la tavola. Non voltatevi; il Re non ama che gli si voltino le spalle». A ogni pasto divoravano enormi quantità di cibi raffinati, ingoiavano fiumi di vino e frantumavano montagne di piatti di porcellana di Estor. In un suo rapporto, il Tesoriere una volta aveva scritto che per un pranzo alla tavola reale si spendeva addirittura quanto all’Accademia Soaniana delle Scienze in sei mesi. Rumata aspettava che il maestro di cerimonia dicesse tre volte «A tavola!», e ascoltava per la decima volta il racconto di Don Tameo di quando, sei mesi prima, aveva avuto l’onore di partecipare a un altro pranzo reale. «…Così arrivo al posto che mi è stato assegnato, siamo tutti in piedi, il Re entra, si siede, anche noi ci sediamo e il pranzo procede normalmente. Ma improvvisamente, pensate un po’, mi sento tutto bagnato sulla sedia. Bagnato! Non oso muovere un dito né voltarmi, né toccare la sedia con la mano. Però aspetto il momento propizio e cautamente provo a toccare con la sinistra. Ci credereste, cari signori, ci credereste? È tutto bagnato! Mi annuso velocemente le dita… No, non puzzano. Cosa diavolo sta succedendo? Intanto il pranzo finisce, tutti si alzano in piedi, ma come potete immaginare, cari signori, io non ho proprio voglia di alzarmi dalla sedia… Allora il Re viene verso di me. Sua Maestà! Ma io resto seduto come un sempliciotto che non conosce l’etichetta di corte. Sua Maestà si avvicina, sorride graziosamente e mi mette una mano sulla spalla. ‘Mio caro Don Tameo’ dice ‘ci siamo alzati tutti da tavola e stiamo andando a vedere il balletto, ma voi siete ancora seduto. Che c’è? Forse non avete avuto abbastanza da mangiare?’ Maestà’ dico ‘mi tagli pure la testa, ma la mia sedia è tutta bagnata’. Sua Maestà si compiace di ridere e mi ordina di alzarmi. Io mi alzo, e indovinate un po’? Tutti scoppiano a ridere. Signori, per tutto il pranzo io ero stato seduto su un babà al rum! Sua Maestà si compiaceva di ridere a crepapelle. Alla fine dice: ‘Reba, Reba! È un altro dei suoi soliti scherzi? Pulite il didietro del signore, ha i pantaloni tutti sporchi!’ Don Reba, piegato in due dal ridere, estrae il pugnale e toglie il babà dal fondo dei miei pantaloni. Riuscite a immaginarvi come mi sono sentito, signori? Non lo nascondo, tremavo tutto ed ero spaventato a morte al pensiero di aver umiliato Don Reba davanti a tutti. Avevo paura che avrebbe voluto vendicarsi. Fortunatamente alla fine è tutto andato per il meglio. Vi assicuro, signori, è stato l’avvenimento più felice della mia vita! Ho fatto divertire il Re. Oh, come rideva! Come si divertiva!» Suonarono le fanfare e il maestro di cerimonia invitò tutti ad accomodarsi a tavola con la sua voce melodiosa. Il Re entrò nel salone, trascinando leggermente la gamba. Tutti presero posto. Le guardie erano disposte ai quattro angoli del salone, immobili e appoggiate alle spade. I commensali ai due lati di Rumata erano silenziosi. Alla sua destra la sedia era riempita dal pancione tremolante del ghiottone Don Pifa, sposato a una famosa bellezza. Alla sua sinistra sedeva il poeta Gur, che fissava il piatto vuoto con espressione vacua. Gli ospiti osservavano tutti il Re. Il Re si allacciò un tovagliolo più grigio che bianco intorno al collo, diede un’occhiata ai piatti che aveva davanti e prese una coscia di pollo. Aveva appena affondato i denti nella carne che cento lame si precipitarono rumorosamente sui piatti e cento mani si avventarono avidamente sul cibo. La sala da pranzo era piena del rumore delle bocche e delle mascelle, il vino scorreva a fiumi. I baffi delle guardie, sempre appoggiate immobili alle loro spade, cominciarono a vibrare in una danza di avidità. C’era stato un tempo in cui Rumata era disgustato da simili spettacoli, ma ormai si era abituato. Mentre sezionava una coscia di montone con il pugnale, guardò alla sua destra con la coda dell’occhio, ma distolse subito lo sguardo: Don Pifa era chino su un cinghiale arrosto tutto intero, e procedeva con il ritmo di un bulldozer. Dietro di sé non lasciava neppure le ossa. Rumata trattenne il respiro e bevve un bicchiere di vino irukano tutto d’un fiato. Poi si voltò leggermente a sinistra. Il poeta Gur rigirava tristemente il cucchiaio in una coppetta d’insalata di carne. «Scritto qualcosa?» chiese Rumata, con voce calma. Gur ebbe un sobbalzo. «Scritto qualcosa? Io? Non so… Certo, certo, tante cose…» «Poesie?» «Sì, sì… Poesie». «Saranno poesie orribili, Padre Gur». Gur lo guardò con una strana espressione, e lui continuò: «Lei non è un poeta!» «Non sono un poeta… A volte rifletto su che cosa sono in realtà, e su che cosa temo. Non so…» «Guardi nel piatto e continui a mangiare. Le dirò io che cosa è. Un genio creativo, lo scopritore di vie nuove in letteratura, e uno dei migliori scrittori da prendere a calci». Gur arrossì. «Nel giro di cent’anni, forse anche prima, decine di poeti seguiranno le sue tracce». «Dio non voglia!» sfuggì a Gur. «Adesso le dirò di cosa ha davvero paura». «Ho paura del buio». «Del buio della sera?» «Anche. Perché l’oscurità ci espone al potere degli spiriti. Ma più di tutto temo il buio della notte, perché di notte tutto diventa grigio». «Ben detto, Padre Gur. Ma adesso parliamo d’altro. La sua opera è ancora reperibile?» «Non lo so… E non voglio saperlo». «Si rassicuri. Una copia è nella capitale, nella biblioteca imperiale. Un’altra copia è conservata al Museo delle Rarità di Soan. E una terza copia è in mio possesso». Gur prese una cucchiaiata di gelatina con la mano che tremava. «Io… Io non so…» I suoi occhi grandi e infossati guardavano tristemente Rumata. «Mi piacerebbe leggerla… Rileggerla un’altra volta…» «Gliela farò avere con molto piacere». «E poi?» «E poi me la restituirà». «Oh, sì, privarmene di nuovo!» disse aspramente Gur. «Don Reba l’ha intimidita molto». «Intimidito… Siete mai stato costretto a bruciare i vostri figli? Che ne sapete voi del terrore, della paura, signore?» «M’inchino rispettosamente davanti a quello che ha passato, Padre Gur. Ma la condanno per essersi arreso!» Improvvisamente Gur cominciò a parlare a voce così bassa che Rumata non riusciva quasi a sentirlo in mezzo al chiasso e al rumore dei commensali. «E questo cosa vuol dire? Che cos’è la verità? Il Principe Chaar ha amato davvero quella bella pellerossa. Hanno avuto dei figli. Conosco i loro nipoti. Li hanno avvelenati, certo. Ma mi hanno detto che questa era una menzogna. Mi hanno detto che la verità è tutto quello che avvantaggia il Re. Tutto il resto è solo delitto, menzogna. Solo ora sto scrivendo finalmente la verità…» Si alzò improvvisamente in piedi e recitò una cantilena altisonante: Grande e glorioso, come l’eternità Regna il Re che ha a nome Nobil Mente. I cospiratori teman l’incombente Sua ira, che acceca le loro falsità. Il Re smise per un momento di masticare, aprendo la bocca piena. Guardò Gur con occhi spenti. Gli ospiti ritrassero la testa fra le spalle. Solo Don Reba sorrise, battendo impercettibilmente le mani. Il Re sputò degli ossicini sul tappeto e disse: «Glorioso? Giusto. Eternità? Bene. Potete continuare a mangiare». Si ricominciò a sentir schioccare le labbra e a ciarlare. Gur si sedette. «Com’è bello e dolce dire la verità in faccia al Re» disse rauco. Rumata taceva. Poi disse: «Le farò mandare una copia del libro. Ma a una condizione: comincerà immediatamente un’altra opera». «No. Troppo tardi. Che scriva Kiun. Io sono già avvelenato. E comunque queste cose non mi interessano più. Adesso vorrei una cosa sola: imparare a bere. Solo che non ci riesco… Mi fa venire mal di stomaco…» «Un’altra sconfitta. Troppo tardi» pensò Rumata. «Ascolti, Reba» disse il Re. «Dov’è il guaritore? Mi aveva promesso di mandarmi un medico dopo pranzo!» «È qui. Vostra Altezza. Mi sta ordinando di chiamarlo?» «Se glielo sto ordinando? È insopportabile! Se aveste dei dolori al ginocchio come i miei, stareste già squittendo come un maiale! Fatelo venire subito!» Rumata si appoggiò allo schienale per vederci meglio. Don Reba alzò una mano e schioccò le dita. Si aprì la porta ed entrò un uomo vecchio e curvo che si inchinava continuamente, avvolto in una cappa lunga fino a terra ricamata di ragni argentati, stelle dorate e serpenti luccicanti. Sottobraccio aveva una cartella piatta. Rumata era allo stesso tempo preoccupato e deluso. Si era immaginato Budach come una persona molto diversa. Come poteva un saggio, un umanista come lui, autore del Trattato sui veleni, avere occhi così inquieti e infiammati, labbra tremolanti di paura, un sorriso così pietosamente servile? Poi pensò a Gur. La persecuzione di una spia irukana non era forse un tema letterario degno di discussione nello studio privato di Don Reba? «Non sarebbe bello dare una lezione a Don Reba?» pensò, schioccando mentalmente le labbra. «Dovrebbero gettarlo in fondo alle segrete. E bisognerebbe dire agli aguzzini: ‘Ecco qua quella spia di Irukan che finge di essere il nostro ministro della Sicurezza Interna. Il Re vuole che gli facciate confessare dove tiene nascosto il vero ministro. Al lavoro! E guai a voi se muore prima di una settimana’…» Rumata dovette nascondersi il viso tra le mani. Era sopraffatto dall’odio. Che cosa terribile, quell’odio… «Eccoti, finalmente. Vieni qui, guaritore» disse il Re. «Vieni qui, mio caro signor luminare. Bene, siediti là. Siediti, ho detto! Comincia». Il povero Budach si mise all’opera con il viso disfatto dal terrore. «Andiamo, andiamo!» si spazientì il Re. «Forza, ti dico! In ginocchio, che le ginocchia a te non fanno male. Si cura, il demonio! Fammi vedere i denti! Così. Che bei denti hai. Se solo potessi averli anch’io! Anche le tue mani sono sane, forti. Che uomo in forma… E malgrado questo è un luminare… Allora… Su, colombello, su, curami, che aspetti?» «Se S-su-sua M-mae-stà… si compiacesse di mostrarmi la gamba malata… La gamba…» balbettò il medico. Rumata alzò la testa. Il medico si inginocchiò davanti al Re ed esaminò cautamente la gamba. «Eh!» sbuffò il Re. «Che cosa fai? Non toccarmi! Adesso che hai cominciato, curami!» «Ho… Ho… Ho visto quello che mi serve. Sua Maestà» borbottò nervosamente il medico, e cominciò a frugare ansiosamente nella cartella. Gli ospiti smisero di masticare. Gli aristocratici di rango inferiore seduti all’estremità della tavola si alzarono addirittura in piedi e, divorati dalla curiosità, allungarono il collo per vedere meglio. Budach estrasse delle boccette, le stappò, le annusò una a una e le mise in fila davanti a sé sulla tavola. Poi prese il calice del Re e lo riempì a metà di vino. Sussurrò formule magiche facendo gesti misteriosi con la mano, poi vuotò tutte le boccette nel calice. Il salone si riempì di un forte odore di ammoniaca. Le labbra del Re si fecero sottilissime. Sbirciò dentro al calice, storse la bocca e guardò in direzione di Don Reba. Il ministro sorrise con aria solidale. I cortigiani trattennero il respiro. «Che diavolo sta facendo?» si chiese Rumata. «Il vecchio Re ha la gotta! Che pozione ha versato nella coppa? Eppure nel trattato aveva detto chiaramente: ‘Frizionare l’arto con il veleno di tre giorni del serpente Qui. Forse gli strofinerà la pelle con la pozione?» «Che cos’è?» chiese scettico il Re, indicando il calice con l’indice destro. «È un linimento, vero? Va frizionato sul ginocchio malato?» «Niente affatto, Sua Maestà» rispose Budach. In qualche modo, sembrava aver ripreso sicurezza. «Va ingerito». «Cosa? Ingerito?» Il Re gonfiò le guance e si lasciò cadere all’indietro nella poltrona. «Non voglio ingerire un bel niente! Frizionalo!» «Il suo desiderio è un ordine. Ma mi permetto di avvertire Sua Maestà che l’applicazione esterna non le gioverà per niente». «E perché tutti gli altri mi frizionavano il ginocchio con le pomate?» chiese il Re in tono sospettoso. «Mentre tu insisti a farmi bere quest’abominio?» «Maestà» disse Budach, raddrizzandosi fieramente. «Questa medicina è nota soltanto a me. Con essa ho curato lo zio del Duca di Irukan. E per quanto riguarda chi le ha curato il ginocchio con delle pomate… Mi permetta di dirle che quei ciarlatani non hanno affatto curato Sua Maestà…» Il Re guardò di nuovo Don Reba. Il ministro sembrava sorridere con compassione. «Imbroglione!» disse il Re al medico in tono sprezzante. «Bifolco! Saccente!» Prese il calice. «Ecco, ecco che cosa ne faccio della tua medicina! Te la tiro in faccia!» Sbirciò nel calice. «E se mi fa vomitare?» «Allora bisognerà ripetere l’operazione» disse Budach tristemente. «Bene, lo farò» disse il Re, e stava quasi per portare il calice alle labbra quando cambiò idea e lo respinse di nuovo, così violentemente che un po’ di liquido si rovesciò sul tappeto. «Ah, caro mio, prima bevine un po’ tu! So bene che la tua razza, voi irukani truffaldini, avete venduto addirittura il nostro san Michele ai barbari! Bevi, è un ordine!» Budach prese il calice con aria piuttosto offesa e ne bevve qualche goccia. «Be’, di cosa sa?» «È amaro, Maestà» disse Budach calmo. «Ma ora deve bere la medicina!» «Devo, devo!» piagnucolò il Re. «Lo so da solo quello che devo fare. Dammelo! Tanto ne ho già rovesciato metà. Allora va bene, da’ qua!» Vuotò il calice in un sorso. Qua e là si sentivano gli ospiti sospirare. Improvvisamente tutto tacque. Il Re si irrigidì e spalancò la bocca. Gli occhi gli si riempirono di lacrime, che gli caddero sulle guance a una a una. Il viso gli diventò paonazzo, poi poco a poco si fece cianotico. Allungò una mano sulla tavola schioccando spasmodicamente le dita. Don Reba gli porse subito un sottaceto. Il Re glielo tirò addosso e poi allungò di nuovo la mano. «Vino!» gracchiò. Qualcuno gli passò una brocca di terracotta. Il Re bevve in fretta a grandi sorsi, roteando follemente gli occhi. Sulla giacca bianca scorrevano strisce rosse. Vuotata la brocca, la tirò contro Budach, mancandolo. «Figlio di un cane!» disse con voce stranamente bassa. «Perché volevi uccidermi? Non ne abbiamo impiccati abbastanza come te? Vai al diavolo!» Tacque e si toccò il ginocchio. «Mi fa male!» disse piagnucolando come prima. «Fa ancora male!» «Maestà» disse Budach. «Per ottenere dei risultati dovrebbe bere questa pozione tutti i giorni per una settimana». Nella gola del Re sembrò esplodere qualcosa. «Vattene!» sbraitò il monarca. «Andate a farvi impiccare! Tutti quanti!» I cortigiani balzarono in piedi, correndo tutti verso le porte e rovesciando le sedie. «Via dalla mia vista! Vi-i-a-a-a!» urlò il Re, rovesciando i piatti dalla tavola. Rumata, dopo essere scappato insieme agli altri commensali, si nascose dietro la prima tenda che trovò e scoppiò a ridere. Dietro la tenda vicina, sentì anche altri che ridevano di gusto. Capitolo VI II turno di guardia nella camera da letto del Re non cominciava prima di mezzanotte. Perciò Rumata decise di tornare a casa nel frattempo, per controllare se era tutto in ordine e cambiarsi d’abito. Era stupito dall’aspetto della città al crepuscolo. Le strade erano immerse nel silenzio, le taverne e le locande avevano le porte sprangate. Agli incroci gli Sturmovik sferragliavano metallici, con le torce in mano. Anche loro non parlavano, e sembravano in attesa di qualcosa. Ogni tanto uno di loro si avvicinava a Rumata, lo osservava, ma appena lo riconosceva lo lasciava proseguire senza dire nulla. A pochi passi da casa sua un gruppo di persone dall’aria sospettosa cominciò a seguirlo, tenendosi però sempre a una certa distanza. Rumata si fermò di colpo e fece rumore con le spade. Quelli indietreggiarono, ma lui sentì subito dopo lo scatto di una balestra che veniva caricata. Si affrettò, camminando sempre rasente i muri. Arrivò alla porta e girò la chiave nella serratura, sempre penosamente cosciente di essere sotto tiro. Balzò dentro con un sospiro di sollievo. Tutti i servitori si erano riuniti nell’entrata con le armi in mano. Avevano già controllato il portone per essere certi che fosse ben chiuso. A Rumata tutto questo non piacque. «Forse dovrei restare a casa» pensò. «Al diavolo il principe ereditario». «Dov’è il barone Pampa?» chiese. Molto agitato, con la balestra sulla spalla, Uno rispose che il barone aveva dormito fino a mezzogiorno, aveva bevuto tutta l’acqua che c’era e poi se n’era andato a cercare altri divertimenti. Poi disse in tono serio che Kyra aveva chiesto più volte notizie del padrone, ed era preoccupatissima. «Va bene» disse Rumata, e congedò i servitori. Senza contare le cuoche avevano in tutto sei servi, di solito affidabili, abituati alle risse di strada. «Naturalmente non si opporrebbero mai ai Grigi» pensò Rumata «perché hanno troppa paura dell’onnipotente ministro delle Forze di Sicurezza; ma potrebbero resistere a quei mascalzoni delle armate notturne, soprattutto perché i banditi si aspetterebbero una facile vittoria». I servitori avevano due balestre, quattro asce da guerra, vari coltelli da macellaio, ed elmetti metallici. Il portone era rinforzato da borchie e sbarre di ferro, secondo le tradizioni locali. O forse sarebbe stato meglio non abbandonare la casa quella notte? Salì le scale ed entrò in punta di piedi nella stanza di Kyra. La ragazza si era addormentata vestita, rannicchiata sul copriletto. Rumata si chinò su di lei, tenendo una candela in mano. «Devo andare o no? Per una volta vorrei tanto non dover andare». Le mise addosso una coperta, la baciò sulla guancia e tornò nella propria stanza. «Devo andare. Qualunque cosa succeda, l’emissario dev’essere sempre sul posto. A vantaggio degli storici sulla Terra». Un sorriso amaro gli attraversò il viso. Si tolse il cerchietto dalla fronte, pulì accuratamente la lente con un panno e se lo rimise. Poi chiamò Uno e gli disse di portargli la veste-corazza e l’elmetto di rame appena lucidato. Rabbrividendo, infilò il busto di metalloplast sulla maglietta, sotto la giubba. L’indumento somigliava a quelli di maglia metallica: quella locale proteggeva dai colpi di pugnale o di spada, ma veniva attraversata facilmente dalle frecce. Allacciandosi la cintura dell’uniforme, disse a Uno: «Senti, ragazzo mio. Di te mi fido più che di tutti gli altri. Qualunque cosa succeda, Kyra deve restare incolume. Non mi interessa se la casa va a fuoco o se mi rubano tutto quello che ho, ma devi proteggere Kyra. Se necessario fuggite sui tetti o attraverso le cantine, ma sta’ attento a lei, difendila. È chiaro?» «Sì, signore. Non dovrebbe uscire stasera». «Ascoltami. Se fra tre giorni non sarò ancora tornato, prendi Kyra e portala nella radura della Foresta del Singhiozzo. Sai dov’è? Bene, là troverai il Covo dell’Ubriaco, una capanna strana non lontana dalla strada. Basta che tu chieda e tutti ti diranno dov’è. Ma sta’ attento a chi chiedi. Là vive un uomo che si chiama Padre Kabani. Raccontagli tutto. È chiaro?» «Sì, signore. Ma sarebbe molto meglio se stanotte lei non uscisse». «Preferirei restare, infatti. Ma è impossibile. Il dovere mi chiama. Sta’ attento, dunque!» Diede un buffetto sulla guancia al ragazzo e ricambiò con uno sguardo gentile il suo sorriso imbarazzato. A pianterreno incoraggiò i servitori, uscì di casa e scomparve di nuovo nel buio. Sentì dietro di sé che il portone veniva sbarrato. Normalmente, gli appartamenti del principe non erano sorvegliati molto da vicino. Era probabile che proprio per questo motivo nessuno avesse mai attentato alla vita dei principi di Arkanar. In particolare, nessuno sembrava interessato al principe attuale. A nessuno era simpatico quel ragazzo dagli occhi azzurri e malinconici, che somigliava a tutti tranne che a suo padre. Ma a Rumata piaceva. La sua educazione era stata trascurata, perciò la sua immaginazione era rimasta intatta. Non era crudele come gli altri, non sopportava Don Reba (istintivamente, pareva), gli piaceva cantare i versi di Zuren e giocare con le barchette. Rumata aveva ordinato per lui, nella capitale, dei libri illustrati, gli aveva parlato del cielo stellato e si era definitivamente conquistato la sua simpatia raccontandogli favole che parlavano di vascelli volanti. A Rumata, che aveva poche occasioni di stare con i ragazzi, il principino decenne sembrava diversissimo dagli altri abitanti di quel paese selvaggio. Eppure quei bambini innocenti, qualunque fosse il loro ceto, erano gli stessi in cui poi si sviluppavano ignoranza, bestialità e cieca sottomissione alle autorità. Quei bambini non mostravano alcuna traccia di meschinità. A volte Rumata pensava che non sarebbe stata una cattiva idea se su quel pianeta non ci fossero stati adulti. Il principe dormiva già. Rumata iniziò la guardia. Insieme all’ufficiale che era venuto a sostituire si avvicinò al letto in cui dormiva il ragazzino ed eseguì delle figure complicate con la spada sguainata, come previsto dall’etichetta di corte. Quindi fece il solito giro, controllando che tutte le finestre fossero sprangate, che le bambinaie fossero ai loro posti e che in tutte le stanze fossero accese le candele. Poi tornò in anticamera, giocò un po’ agli astragali con l’ufficiale che aveva appena smesso il servizio e gli chiese un parere sugli ultimi avvenimenti. L’uomo, personaggio di grandi doti intellettuali, si immerse in profonde riflessioni e poi disse che secondo lui il popolo stava preparandosi alla festa di san Michele. Quando l’ufficiale se ne fu andato Rumata avvicinò una sedia alla finestra, si sedette comodamente e guardò fuori, Erano in cima a una collina, e durante il giorno la vista sulla città fino all’oceano era stupenda. Ora tutto era immerso nell’oscurità. Si vedevano solo rari grumi di luce dove la gente si era radunata agli incroci aspettando i segnali delle torce degli Sturmovik. La città era addormentata, o fingeva di esserlo. Sarebbe stato molto interessante sapere se gli abitanti sentivano che stava per succedere qualcosa di terribile. O pensavano, come l’ufficiale di grandi qualità intellettuali, che si trattasse solo dei preparativi per la festa di san Michele? Ventimila uomini e donne. Ventimila fabbri armaioli, macellai, mercanti di stoffe, gioiellieri, casalinghe, prostitute, monaci, cambiavalute, soldati, vagabondi e quei topi di biblioteca che erano stati risparmiati si gettavano sui loro letti puzzolenti di cimici. Dormivano, facevano l’amore, ripensavano ai profitti della giornata, piangevano, stringevano i denti per la cattiveria o la tristezza… Ventimila esseri umani! Agli occhi di un osservatore terrestre avevano tutti qualcosa in comune. Probabilmente il fatto che tutti loro, senza eccezione o quasi, non fossero ancora esseri umani nel vero senso della parola, ma piuttosto degli stadi preliminari, blocchi di minerale grezzo dal quale secoli sanguinosi di storia avrebbero forgiato infine uomini liberi e fieri. Erano passivi, avidi e incredibilmente egoisti. Da un punto di vista psicologico erano quasi tutti schiavi: schiavi della fede, di se stessi, delle loro rabbiose passioni e della loro avidità. E se per caso uno di essi era nato con uno spirito nobile, o lo era diventato con gli anni, non sapeva nemmeno che farsene della propria libertà. Si affrettava a diventare di nuovo schiavo: si faceva schiavizzare dalla ricchezza, dal lusso innaturale, dai compagni debosciati e dai suoi stessi schiavi. Non si poteva affatto biasimare la maggioranza per questo. La sua schiavitù affondava le radici nella passività e nell’ignoranza. Però la passività e l’ignoranza conducevano di volta in volta alla schiavitù. Se davvero tutti fossero stati il frutto di uno stesso stampo avrebbero passato il tempo a girare i pollici, senza speranza. Ma erano comunque esseri umani, e in loro covava la scintilla dell’intelligenza. E perciò sempre, un po’ qua e un po’ là, brillava la luce di un futuro molto molto lontano ma inevitabile. Avrebbe cominciato a brillare malgrado tutto. Malgrado la loro apparente inettitudine. Malgrado le persecuzioni e le morti senza fine. Anche se venivano picchiati e presi a calci. Anche se nessuno aveva bisogno di loro, ed erano tutti contro di loro. Anche se al massimo potevano contare su una pietà ottusa e condiscendente… Non capivano che il futuro era davanti a loro, che il futuro era impossibile senza di loro. Non sapevano di essere l’unica vera speranza in un mondo stretto nella morsa di un passato orribile, di essere i fermenti, le vitamine nell’organismo della loro società. Una volta distrutti questi fermenti, la società avrebbe cominciato a marcire, a decadere, i muscoli si sarebbero afflosciati, la vista si sarebbe indebolita e sarebbero caduti tutti i denti. «Nessuno stato può svilupparsi senza l’aiuto delle scienze. Verrebbe cancellato dai suoi vicini. Senza l’arte e la cultura uno stato perde la sua capacità di autovalutazione, dà impulso alle scelte sbagliate, genera continuamente ipocriti e mascalzoni, incoraggia il consumismo, crea l’arroganza e alla fine diventa vittima di un vicino più forte. Che le autorità perseguitino pure gli studiosi, ostacolino e impediscano le attività degli scienziati, distruggano le arti: prima o poi i governanti inciamperanno e, battendo il muso, saranno costretti a riaprire le vie tanto odiate dagli ignoranti e dagli stupidi assetati di potere. E per quanto questi Grigi disprezzino la cultura e la conoscenza, alla lunga saranno comunque impotenti di fronte alla necessità oggettiva della storia, possono solo ritardare il cammino del progresso, ma non arrestarlo completamente. E anche se temono e disprezzano le menti colte, alla fine saranno inevitabilmente costretti ad appoggiarle per sopravvivere. Prima o poi dovranno fermarsi di fronte alla necessità di fondare università, di organizzare società scientifiche, di creare centri di ricerca, di costruire osservatori e laboratori, di addestrare nuclei di esperti, di educare uomini con una psiche completamente diversa e con esigenze completamente diverse. «Queste persone però non possono esistere e non possono operare in un ambiente di avidità banale, di interessi plebei, di autosufficienza ottusa e desideri esclusivamente sensuali. Hanno bisogno di un ambiente nuovo, di un’atmosfera permeata di conoscenza generale e onnicomprensiva, imbevuta di pulsione artistica: hanno bisogno di scrittori, poeti, pittori, compositori… Anche qui i Grigi si troveranno costretti a fare concessioni. Quelli che resisteranno saranno spazzati via da rivali più abili nella lotta per il potere; quelli che non saranno d’accordo su queste concessioni si scaveranno la fossa senza nemmeno accorgersene, inevitabilmente, paradossalmente. Perché gli egoisti ignoranti e fanatici sono condannati, quando la cultura si risveglia tra il popolo, in tutti i campi: dalla ricerca scientifica alla capacità di apprezzare la buona musica. Tutto questo è seguito da un’epoca di vasti sommovimenti sociali, accompagnati da un progresso inimmaginabile della scienza. Ma insieme all’intellettualizzazione di tutti gli strati sociali nascerà un’era in cui i seguaci dei valori ormai vacillanti riuniranno le loro forze per ingaggiare una battaglia la cui crudeltà rigetterà l’umanità nel Medioevo. Questa lotta fatale vedrà la caduta dei Grigi, per creare una società liberata da tutte le distinzioni di classe e dall’oppressione dell’uomo…» Rumata continuava a osservare la città, un globo pietrificato velato dall’oscurità. Da qualche parte, in una stanzetta soffocante, c’era Padre Tarra che si contorceva su un misero pagliericcio, tormentato dalla febbre; ma accanto a lui c’era Frate Nanin, seduto a un tavolino, ubriaco, felice e maligno, e stava terminando il suo Trattato sulle voci, il libro in cui ridicolizzava con gusto la vita sotto i Grigi. E da qualche altra parte il poeta Gur camminava lentamente su e giù per le sue stanze vuote e lussuose, accecato dalla disperazione e terrorizzato al pensiero che, malgrado tutto, dagli abissi della sua anima lacerata cercassero di venire alla luce nuovi mondi, mondi nuovi e luminosi che sembravano ancorati a una forza sconosciuta, abitati da esseri umani meravigliosi ed emozioni sconvolgenti. E laggiù passava la notte il dottor Budach, chissà come. Umiliato, messo in ginocchio, battuto, ma ancora vivo… «Tutti fratelli miei» pensò Rumata. «Io sono uno di voi. Dopotutto siamo della stessa carne!» Improvvisamente fu colpito dal dubbio di non essere affatto un dio che li proteggeva con la sua mano, ma piuttosto un fratello che aiutava un altro fratello o un figlio che correva in soccorso del padre. «Ucciderò Don Reba». «A che scopo?» «Ha sterminato i miei fratelli». «Non sa quello che fa». «Ma sta assassinando il futuro». «È innocente: è figlio del suo tempo». «Vuoi dire che non si rende conto della sua colpa? Ma che importa se lo capisce o no?». «E Padre Zupik? Cosa non darebbe perché qualcuno uccidesse Don Reba. Adesso non sai cosa dire. Dovrai uccidere molta gente, vero?» «Non so. Forse. Uno dopo l’altro. Tutti quelli che vogliono impedire che il futuro si avveri». «Sempre la stessa storia. Veleno, bombe… Non hanno mai cambiato niente». «Oh, sì, invece. È nata la strategia della rivoluzione». «Cosa t’importa della strategia della rivoluzione? A te importa solo uccidere» «Sì, voglio uccidere». «Sei davvero in grado di farlo?» «Ieri ho provocato la morte di Donna Okana. Sapevo che sarebbe stata uccisa nel momento stesso in cui sono andato a casa sua con una piuma dietro l’orecchio. Mi spiace solo di averla uccisa per niente. Sono quasi riusciti a insegnarmi queste cose, quassù». «Ma è un male. È un problema serio, e pericoloso. Ti ricordi di Sergei Koshin e George Lenni? O di Sabine Krueger?» Rumata si passò la mano sulla fronte madida di sudore. «Sei qui a meditare, a contemplare, a preoccuparti… E riesci solo a tirar fuori spazzatura». Si alzò in piedi e aprì la finestra. I gruppi di luce sparsi qua e là erano in movimento, spezzati, dispersi, lontani; si muovevano in fila, svanivano dietro edifici invisibili e poi riapparivano. Sulla città si alzava un rombo indefinibile, un frastuono distante fatto di mille voci. Due esplosioni illuminarono i tetti circostanti. Qualcosa era esploso nella zona del porto. Cominciava. Nel giro di poche ore si sarebbe saputo cosa significava l’unione tra le orde Grigie e le armate notturne, questa alleanza innaturale tra i piccoli bottegai e i ladri. E si sarebbe anche saputo cosa aveva ottenuto con questo Don Reba, per quale nuova provocazione aveva brigato, o, per dirla in parole povere, chi doveva morire quella notte. Probabilmente stava per iniziare un’altra notte dei lunghi coltelli, un salasso tra i capi delle orde Grigie e allo stesso tempo la distruzione di quegli sfortunati baroni che si trovavano in città, come anche di quegli aristocratici che davano più fastidio. «Chissà cosa sta facendo Pampa» pensò. «Speriamo non stia dormendo. Solo così potrebbe farcela». Non c’era più tempo per lasciar correre i pensieri. La porta cominciò a tremare sotto una gragnuola di colpi-Qualcuno gridava: «Aprite! Aprite!» Rumata tirò il chiavistello. Un uomo mezzo svestito, pallido di terrore, afferrò Rumata per la giubba e gridò con voce tremante: «Dov’è il principe? Budach ha avvelenato il Re! Spie irukane hanno iniziato una sommossa in città! Salvate il principe!» Era il maresciallo del principe, uno stupido, servo ossequioso del suo padrone. Spinse da parte Rumata e si precipitò nella stanza da letto del ragazzino. Le donne cominciarono a urlare. Intanto, però, dalle porte aperte entrarono gli Sturmovik brandendo le asce da guerra, con i visi sconvolti e madidi di sudore. «Indietro» disse Rumata, calmissimo. Dietro di lui, dalla camera da letto, si sentì un grido breve e soffocato. «Siamo nei guai» pensò Rumata. Si nascose in un angolo, barricandosi dietro un tavolo. Sturmovik ansanti cominciarono a riempire la stanza. Sembravano in tutto una quindicina. Un tenente in uniforme grigia, in prima fila, sollevò il pugnale. «Don Rumata?» chiese, ansando. «Siete in arresto. Arrendetevi». «Venite a prendermi!» rispose Rumata, guardando velocemente verso la finestra. «Prendetelo!» ansimò il tenente. Quindici uomini ubriachi armati solo di asce non erano un problema per un esperto in tecniche di difesa che là sarebbero state conosciute solo trecento anni più tardi. Il gruppo avanzò e poi indietreggiò di nuovo. Sul pavimento restarono alcune asce; due Sturmovik si contorcevano per il dolore e si premevano sullo stomaco le mani fratturate, inciampando nei compagni alle loro spalle. Rumata sapeva il fatto suo. Gli attaccanti erano accolti da una barriera densa e scintillante creata dalle spade roteanti, e sembrava impossibile penetrare quella difesa d’acciaio. Gli Sturmovik indietreggiarono, guardandosi confusi. Emanavano un lezzo penetrante di birra e di cipolla. Rumata spostò il tavolo e andò rasente il muro verso la finestra, tenendo sempre d’occhio i soldati. Dalle ultime file partì un coltello, che però mancò il bersaglio. Rumata rise, mise un piede sul davanzale della finestra e disse: «Provateci un’altra volta e vi taglio le mani. Mi conoscete». Lo conoscevano. Lo conoscevano bene, e nessuno si mosse, malgrado gli ordini e le bestemmie degli ufficiali, che stavano bene attenti a non correre personalmente nessun rischio. Minacciandoli sempre con le due spade, Rumata si tirò in piedi sul davanzale. In quel momento una lancia che veniva dalla strada sottostante lo colpì alla schiena. L’impatto fu terribile. Anche se l’arma non riuscì a trapassare la corazza di metalloplast, lo fece però cadere dal davanzale, ributtandolo dentro la stanza, sul pavimento. Rumata tenne strette le due spade, ma in quella situazione non potevano essergli di nessun aiuto. La marmaglia si gettò subito su di lui. Tutti insieme dovevano pesare ben più di una tonnellata, ma s’intralciavano a vicenda, permettendogli così di rimettersi in piedi. Con un pugno colpì le labbra umide di qualcuno, un altro si contorceva come un coniglio ferito e Rumata continuava a tirare pugni in tutte le direzioni, a colpirli con i gomiti, le spalle (da molto tempo non si sentiva così agile). Ma non riusciva a respingerli. Trascinando dietro di sé una fila di corpi arrivò fino alla porta, dove finalmente si liberò degli uomini che gli avevano infilato le unghie nelle gambe. Poi sentì un colpo violento e doloroso nella schiena e cadde all’indietro. Alcuni Sturmovik cercavano di districarsi sotto di lui. Riuscì di nuovo a rimettersi in piedi, tirando brevi colpi che gettavano contro i muri i soldati che scalciavano disperatamente. Per un attimo vide il viso butterato del tenente sopra di sé, mentre si chinava sopra la sua balestra scarica, quando improvvisamente la porta cedette e nella stanza si riversò un’altra folla di visi sudati e ghignanti. Gli gettarono addosso una rete, gliela avvolsero intorno ai piedi e lo trascinarono per terra. Smise di resistere per conservare le forze. Per un po’ lo presero a calci, silenziosamente, accanitamente, ansando di gioia. Poi lo afferrarono per le caviglie e lo trascinarono via. Passando davanti alla porta aperta della stanza da letto Rumata vide il maresciallo del principe inchiodato al muro da una lancia, e un mucchio di lenzuola insanguinate sul letto. «Ecco come va a finire… Povero ragazzo». Lo trascinarono giù per le scale, e perse i sensi. Capitolo VII Disteso su una collina erbosa, guardava le nuvole che salpavano nel cielo alto e azzurro. Si sentiva tranquillo, ma sulla collina sedeva accanto a lui l’incarnazione del dolore più lancinante. Il dolore era esteriorizzato, eppure lo sentiva anche dentro di sé, soprattutto nel fianco sinistro e nella nuca. «Ha tirato le cuoia, vero? Vi taglierò la testa!» Poi un fiotto di acqua gelata gli piovve addosso dal cielo. Infatti era disteso sulla schiena e guardava il cielo: non da una collina erbosa, ma da dentro una pozza d’acqua. Il cielo non era azzurro, ma grigio e plumbeo, striato di rosso. «Niente affatto» disse un’altra voce. «È vivo. Strizza le palpebre». «Sono io» pensò. «Stanno parlando di me. Sono io che strizzo le palpebre. Cosa sono queste sciocchezze? Non sono capaci di parlare come si deve?» Qualcuno si mosse e colpì l’acqua con un oggetto pesante. Sul cielo apparve il profilo nero di una testa con un berretto piatto. «Che ne dice, signore, riesce a camminare da solo o devo farla trasportare?» «Slegatemi le gambe!» disse bruscamente Rumata, e immediatamente sentì una fitta bruciante nelle labbra livide. Vi passò sopra la lingua. «Più che labbra» pensò «sembrano una frittata». Qualcuno si attaccò ai suoi piedi e cominciò a tirarli e spingerli senza tante cerimonie. Alcune persone stavano parlando sottovoce. «Lo avete ridotto piuttosto male». «È stato necessario, stava quasi per sfuggirci… E un demonio, le frecce rimbalzano su di lui…» «Una volta ho conosciuto un uomo: potevi spaccargli un’ascia addosso e non batteva ciglio». «Un contadino, probabilmente». «Chiaro». «E con questo? Lui è un nobile». «Al diavolo! Guarda come hanno stretto i nodi! Neanche san Michele riuscirebbe a slegarlo! Passami una torcia». «Meglio usare un coltello». «Ehi, ragazzi, lasciatelo legato. Se no ricomincerà a darcele. Mi ha quasi spaccato la testa». «No, no, non farà niente». «Gli altri possono dire quello che vogliono, camerati, ma io l’ho colpito con la lancia. Gli ha trapassato la corazza». Una voce echeggiò perentoria nell’oscurità. «Volete smetterla?» Rumata ora si sentiva le gambe libere. Le distese e cercò di alzarsi in piedi, ma ricadde subito. Alcuni Sturmovik accucciati per terra l’osservarono in silenzio mentre barcollava nella pozzanghera fangosa. Il giovane digrignò i denti per la rabbia e l’umiliazione. Tirò indietro le scapole: aveva le mani legate e rigirate sulla schiena, ma così strettamente che non riusciva a capire dove fossero le palme e dove i gomiti. Raccolse tutte le forze e le tirò violentemente verso l’alto, ma si piegò subito in due per il dolore. Gli Sturmovik scoppiarono a ridere. «Così non scappa di certo» disse uno. «Sembra un po’ stanco. Ehi, dormi in piedi?» «Ehi, signore, non è divertente, vero?» «Silenzio! Smettetela con queste idiozie!» disse la voce imperiosamente. «Venite qui, Don Rumata!» Rumata si sforzò di stare in piedi e si diresse verso la voce. Si sentiva barcollare. Da qualche parte spuntò un uomo con una torcia in mano che gli fece strada. Rumata capì dov’era: uno degli innumerevoli cortili interni del ministero della Sicurezza, vicino alle scuderie reali. Rifletté velocemente: «Se mi portano a destra significa la Torre, le segrete. A sinistra, invece, ci sono gli uffici del ministero». Scosse la testa. «Che importa» pensò. «Sono ancora vivo. Ce la farò…» Girarono a sinistra. «Almeno non subito» pensò Rumata. «Prima l’interrogatorio, il contraddittorio. Terribile. In questo caso, di cosa potrebbero accusarmi? È abbastanza ovvio. Di aver istigato il prigioniero Budach ad avvelenare il Re, di aver cospirato e complottato contro la corona. Forse anche di aver assassinato il principe. E naturalmente di aver fatto la spia per gli irukani, i soaniani, i barbari, i baroni, il Sacro Ordine, eccetera. Mi stupisco di essere ancora vivo. Questo significa che quel serpente deve aver pensato anche qualcos’altro». «Da questa parte» disse l’uomo dalla voce imperiosa. Si aprì una porticina. Rumata chinò la testa ed entrò in una grande stanza illuminata da una decina di candelieri. Gli uomini seduti o sdraiati sul tappeto consumato al centro della stanza erano legati e insanguinati. Certi erano già morti, oppure erano svenuti. Erano quasi tutti a piedi nudi e indossavano solo delle camicie da notte strappate. Lungo le pareti, alcuni Sturmovik con il naso rosso erano appoggiati indolentemente alle loro asce. Si guardavano intorno con espressione bestiale e soddisfatta. Avevano vinto. L’ufficiale di guardia camminava avanti e indietro davanti a loro, con le mani dietro la schiena. Aveva un’uniforme grigia dal colletto molto unto. Il compagno di Rumata, un uomo alto che portava un mantello nero, gli si avvicinò e gli sussurrò qualcosa all’orecchio. L’ufficiale annuì, osservò brevemente Rumata con grande interesse e scomparve dietro le tende pesanti e multicolori all’altro capo della stanza. Gli Sturmovik esaminarono a turno il nuovo prigioniero, anch’essi molto interessati. Uno di loro, guercio, disse: «Guarda, sulla fronte ha una pietra preziosa!» «Non male, quella pietra» disse un altro. «Bottino per il Re. E il cerchietto è d’oro massiccio». «Il Re siamo noi, adesso». «Giù le mani, eh, che vi credete?» «Via di là» disse l’uomo con il mantello nero. I soldati lo guardarono sorpresi. «Un altro che ci fa la predica?» disse il guercio. L’uomo con il mantello nero non rispose, ma gli voltò le spalle e si avvicinò a Rumata. Gli Sturmovik lo squadrarono dalla testa ai piedi, diffidenti. «Un prete, forse?» disse quello senza un occhio. «Ehi, prete, vuoi che ti spacchi la faccia?» Gli altri ghignarono divertiti. Il guercio si sputò sulle palme, si passò l’accetta da una mano all’altra e andò verso Rumata. «Adesso vedrai» pensò Rumata, tirando lentamente indietro il piede destro. «Ho sempre picchiato i preti» disse lo Sturmovik, fermandosi davanti all’uomo vestito di nero e guardandolo con insolenza. «I preti, i topi di biblioteca e i nostri cosiddetti padroni. Una volta ho…» L’uomo in nero alzò la mano tesa. Improvvisamente si sentirono uno scatto e un ronzio, appena sotto il soffitto. Sh-sh-sh. Lo Sturmovik lasciò cadere l’accetta e cadde all’indietro. Nella fronte era conficcata una grossa freccia. Subito tutti tacquero. I soldati si dondolavano nervosamente sulle gambe, con gli occhi fissi alle feritoie sotto il soffitto. «Portate via il cadavere, svelti!» Alcuni Sturmovik si chinarono, afferrarono il loro camerata per le braccia e le gambe e lo trascinarono fuori. Un ufficiale Grigio sbucò da dietro le tende e fece un cenno a Rumata e all’uomo in nero. «Andiamo, Don Rumata» disse questi. Rumata passò davanti ai corpi dei prigionieri e si avviò. «Non ci capisco più niente» pensò. Appena fu dietro le tende, al buio, mani invisibili lo afferrarono e lo frugarono dappertutto, gli strapparono dalla cintura i foderi vuoti e lo spinsero poi nella luce. Rumata capì all’istante dove si trovava. Era il famigerato studio di Don Reba negli appartamenti lilla. Don Reba era seduto nello stesso punto, nella stessa posizione della volta precedente: la schiena dritta, i gomiti sulla scrivania e le dita intrecciate. «Scommetto che ha le emorroidi» pensò improvvisamente Rumata. Ne provò quasi compassione. A destra di Don Reba si era sistemato Padre Zupik, che si mordicchiava nervosamente le labbra con espressione attenta, mentre alla sua sinistra era seduto un pancione sorridente: le spalline indicavano che era capitano dell’Armata Grigia. Nella stanza non c’era nessun altro. Mentre Don Rumata entrava, Don Reba disse sottovoce: «Bene, amici, ecco finalmente il nobile Don Rumata». Padre Zupik sorrise con condiscendenza, e il grassone annuì cortesemente. «Il nostro vecchio e acerrimo nemico» aggiunse Don Reba. «Nemico? Impiccatelo!» esclamò Padre Zupik con voce rauca. «E lei cosa ne pensa, Frate Aba?» chiese Don Reba al grassone, lanciandogli uno sguardo d’avvertimento. «Dovete sapere… Per così dire…» Frate Aba aveva un sorriso perso e quasi infantile e gesticolava col suo braccio corto. «Per così dire, dovete sapere, a me in effetti non interessa. Ma forse dovremmo comunque impiccarlo. O forse mandarlo al rogo, che ne dice, Don Reba?» «Perché no?» rispose il ministro, assorto. «Vede» continuò Frate Aba, disperato, indirizzando a Rumata un sorriso stranamente amichevole «in genere impicchiamo i pesci piccoli, la plebaglia. Ma dobbiamo restare in buoni rapporti con l’aristocrazia. Per il bene del popolo. Dopotutto discende da un’antica famiglia, è un’importante spia irukana. Irukana, vero?» Prese un documento sulla scrivania e lo guardò con gli occhi miopi. «Ah, e inoltre è una spia soaniana. Peggio ancora!» «Al rogo, allora» disse Padre Zupik. «Benissimo» aggiunse Don Reba. «Allora siamo tutti d’accordo. Al rogo!» «Tuttavia, penso che Don Rumata potrebbe migliorare la sua posizione!» disse ancora Frate Aba. «Mi capisce, Don Reba?» «Per essere sincero, direi di no». «Il suo patrimonio! Signore, il suo patrimonio! I Rumata sono una famiglia incredibilmente ricca…» «Ha ragione, come sempre» disse Don Reba. Padre Zupik sbadigliò, coprendosi la bocca con la mano e guardando con la coda dell’occhio le tende lilla a destra della scrivania. «Va bene. Allora cominciamo secondo il regolamento» sospirò Don Reba. Padre Zupik continuava a guardare furtivamente verso le tende. Evidentemente stava aspettando qualcosa e l’interrogatorio non lo interessava affatto. «Che razza di scherzo è questo?» pensò Rumata, «Che significa?» «Bene, signore» cominciò Don Reba, voltandosi verso Rumata. «Sarebbe un vero piacere ascoltare cosa ha da dirci a proposito di certe cose che ci interessano». «Slegatemi le mani» disse Rumata. Padre Zupik sussultò, continuando a mordersi disperatamente le labbra. Frate Aba mosse la testa da una parte e dall’altra con fare eccitato. «Dunque?» chiese Don Reba, guardando prima Frate Aba e poi Padre Zupik. «Vi capisco, amici. Considerando le circostanze e il fatto che saranno chiare anche a Don Rumata…» Con uno sguardo significativo fece scorrere gli occhi lungo le file di feritoie sotto il soffitto. «Slegatelo» ordinò con la solita voce calma e inespressiva. Qualcuno si avvicinò da dietro, senza far rumore, e Rumata sentì delle dita stranamente morbide che gli toccavano abilmente le mani, e poi un coltello che tagliava le corde. Con una prontezza incredibile, data la mole, Frate Aba estrasse dalla scrivania una pesante balestra e la mise proprio di fronte a lui, in cima a un fascio di carte. A Rumata le braccia ricaddero inerti lungo i fianchi. Avevano perso quasi completamente la sensibilità. «Bene. Allora cominciamo» disse allegramente Don Reba. «Nome, famiglia e rango». «Rumata, discendente dei Rumata di Estor. Nobili cortigiani da ventidue generazioni». Rumata si guardò intorno, vide un divano, si sedette e cominciò a massaggiarsi i polsi. Frate Aba, ansimando, gli puntò contro la balestra. «E suo padre?» «Il mio nobile padre… Consigliere imperiale, servitore leale e amico personale dell’imperatore». «È vivo?» «È morto». «Quando?» «Undici anni fa». «Dichiari la sua età». Rumata non ebbe il tempo di rispondere. Dietro le tende lilla si udirono improvvisamente dei rumori e Frate Aba si voltò sospettosamente. Padre Zupik si alzò lentamente dalla sedia, ridendo malignamente. «Bene, signori, ci siamo…» fu tutto quello che riuscì a dire. Poi tre uomini sbucarono dalle tende, con grande sorpresa di Rumata: erano le ultime persone al mondo che si sarebbe aspettato di vedere. Sembrava che Padre Zupik stesse pensando la stessa cosa. I tre erano massicci, portavano un saio nero da monaci e avevano il cappuccio abbassato sugli occhi. Veloci e silenziosi, si gettarono su Padre Zupik e lo afferrarono per i gomiti. «Che il diavolo vi porti!» farfugliò. Sul suo viso si dipinse un pallore mortale. Era indubbio che si aspettava tutt’altro. «Che ne dice, Frate Aba?» chiese calmo Don Reba, chinandosi leggermente verso il grassone. «Magnifico!» rispose lui risolutamente. «Sì, magnifico!» Don Reba fece un cenno con la mano. I monaci sollevarono Padre Zupik di peso e lo portarono via, scomparendo silenziosi dietro la tenda. Rumata fece una smorfia di disgusto. Frate Aba si fregò le mani e disse con foga: «È andata magnificamente. Vero, Don Reba?» «Sì, non male» annuì lui. «Ma adesso continuiamo. Allora. Quanti anni ha, Don Rumata?» «Trentacinque». «Da quanto tempo vive ad Arkanar?» «Da cinque anni». «Da dove proviene?» «Sono sempre vissuto a Estor, nella sede avita della mia famiglia». «Perché ha cambiato residenza?» «Sgradevoli circostanze mi hanno obbligato a lasciare Estor. Cercavo una città che potesse rivaleggiare con lo splendore della nostra capitale». Finalmente cominciò a sentire un formicolio insopportabile al braccio. Con molta pazienza, continuò a massaggiarsi. «Che genere di circostanze?» chiese Don Reba. «Ho ucciso in duello un membro della casa imperiale». «Oh? Chi?» «Il giovane Duca Ekin». «E il motivo di questo duello?» «Una donna» rispose seccamente Rumata. Lentamente cominciava a sospettare che tutte quelle domande in realtà non significassero nulla. Che facessero parte del gioco proprio come la consultazione a proposito del tipo di esecuzione. «Tutti e tre stiamo aspettando qualcosa. Io sto aspettando di ritrovare l’uso delle mani. Quell’imbecille di Frate Aba sta aspettando che gli rovesci in grembo tutto l’oro del tesoro dei Rumata. Anche Don Reba sta aspettando. Ma i monaci, i monaci? Come sono riusciti ad arrivare a corte? Soprattutto degli elementi così abili e svelti…» «Come si chiamava la donna?» «Oh, queste domande» pensò Rumata. «Sarebbe difficile mettere insieme qualcosa di più insensato. Cercherò di sviarli un po’«. «Donna Rita» rispose. «Non pensavo che mi avrebbe risposto. Grazie». «Sempre al vostro servizio». Don Reba chinò leggermente la testa. «È mai stato a Irukan?» «No». «Ne è sicuro?» «E lei?» «Vogliamo la verità!» disse Don Reba, in tono didattico, Frate Aba annuì incerto. «Soltanto la verità». «Aha!» esclamò Rumata. «Io invece avevo l’impressione che…» Tacque. Poi: «…che voi foste interessati soprattutto a mettere le mani sul mio patrimonio. Ma non riesco proprio a immaginare come possiate riuscirci, Don Reba!» «Che ne dite di una donazione? Sì, una donazione!» gridò Frate Aba. Rumata rise con disprezzo. «Lei è un idiota, Frate Aba, o qualunque sia il suo nome. Si vede lontano un miglio che lei è solo un piccolo, miserabile bottegaio. Forse non è al corrente del fatto che il diritto di primogenitura non è trasferibile ad altri?» Era chiaro che il grassone stava per esplodere. Ma riuscì a controllarsi. «Non ha il diritto di parlare con questo tono» disse Don Reba con gentilezza. «Volete la verità?» continuò Rumata. «Eccola, la verità, tutta la verità, nient’altro che la verità: Frate Aba è un idiota e un meschino bottegaio». Intanto, Frate Aba aveva recuperato la calma. «Mi sembra che lei non si attenga al punto» disse sorridendo. «Cosa ne pensa, Don Reba?» «Ha ragione, come sempre» rispose lui. «Mio nobile signore, è mai stato a Soan?» «Sì». «Perché?» «Per frequentare l’Accademia delle Scienze». «Strana occupazione per un giovane della vostra condizione». «È quello che penso anch’io». «Ed è in buoni rapporti con il giudice supremo di Soan, Don Kondor?» Rumata cominciò a diventare sospettoso; la cosa puzzava. «È un vecchio amico di famiglia». «Un uomo di grande valore, no?». «Una persona stimabilissima». «È al corrente del fatto che Don Kondor fa parte della cospirazione contro Sua Maestà il Re?» Rumata sporse impercettibilmente il mento. «Prima lavate i vostri panni sporchi, Don Reba» disse altezzosamente. «Per quanto riguarda noi, la vecchia nobiltà della capitale, tutti questi soaniani e irukani, così come gli arkanariani, sono e saranno soltanto vassalli della corona imperiale!» Incrociò le gambe e si voltò. Don Reba l’osservò pensosamente. «Lei è ricco, Don Rumata?» «Potrei comprare tutta Arkanar, se solo mi saltasse in mente di farlo. Ma la spazzatura non mi interessa». Il ministro respirò profondamente. «Il cuore mi sanguina» disse «al pensiero di essere costretto a recidere un ramo tanto insigne di un lignaggio così famoso e nobile. Sarebbe quasi un delitto, se non fossi spinto a farlo per tutelare gli interessi dello Stato». «Non si preoccupi tanto degli interessi dello Stato. Salvate la pelle, piuttosto» disse Rumata. «Ha ragione» rispose Don Reba, e schioccò le dita. Rumata contraeva e rilasciava i muscoli alternativamente. Il suo corpo apparentemente funzionava di nuovo. Da dietro le tende sbucarono di nuovo tre monaci, con la stessa incredibile abilità che rivelava una grande esperienza. Circondarono Frate Aba, che continuava a sorridere, e gli afferrarono le braccia, torcendogliele dietro la schiena. «Ahhh!» urlò lui, con il viso tondo contratto dal dolore. «Svelti, sbarazzatevene!» ordinò Don Reba. Il grassone resisteva furiosamente agli uomini che lo trascinavano dietro le tende. Lo si sentiva urlare e gemere. Poi improvvisamente emise un grido con una voce strana, irriconoscibile, e finalmente tutto tornò tranquillo. Don Reba si alzò e scaricò cautamente la balestra. Rumata, perplesso, seguiva con gli occhi i suoi movimenti. Don Reba cominciò a camminare su e giù, lentamente, come perso in profonde riflessioni, grattandosi la schiena con la freccia. «Bene, bene» mormorò, quasi con tenerezza, «perfetto…» Sembrava essersi completamente dimenticato della presenza di Rumata. Continuò a camminare sempre più veloce, facendo roteare la freccia. Poi si fermò di colpo accanto alla scrivania, gettò via la freccia, si sedette, sorrise improvvisamente e disse: «Bene, che ne dite? Nessuno dei due si è difeso molto. Non credo che con voi sarà così facile». «Già» disse Rumata pensosamente. «Va bene, allora. Adesso facciamo quattro chiacchiere, Don Rumata. O lei non è Rumata? E forse neppure don? Cosa ne dice?» Rumata tacque e l’osservò attentamente. L’uomo era pallido, e sul naso aveva delle venuzze rosse. Tremava quasi per l’emozione, come se fosse stato sul punto di applaudire, gridando: «Lo sapevo! Lo sapevo!» «Non sai un bel niente, cane» pensò Rumata. «E anche se scoprissi qualcosa, non ci crederesti mai. Avanti, parla. Ti sto ascoltando». «Sto ascoltando» disse Rumata. «Non è affatto Don Rumata» spiegò Don Reba. «Lei è un usurpatore». Lo guardò seriamente negli occhi. «Rumata di Estor è morto cinque anni fa, ed è stato seppellito nella cripta di famiglia. I santi da allora hanno calmato la sua anima ribelle e, con tutto il rispetto, non molto pura. Allora? Confessa o le serve un aiuto?» «Lo confesso. Mi chiamo Rumata di Estor, e non sono abituato a vedere messe in dubbio le mie parole». «Ho voglia di seccarti un po’«pensò Rumata. «Attento, si comincia». «Vedo che dovremo continuare la conversazione altrove» disse Don Reba in tono minaccioso. Il suo volto cambiò espressione. Il sorriso cortese sparì, le labbra si assottigliarono. Era strano, quasi incredibile: perfino la fronte cominciava a contrarsi. «Sì» pensò Rumata. «È impossibile spaventare un uomo simile». «Soffrite di emorroidi, vero?» gli chiese sollecito. Qualcosa balenò in fondo agli occhi di Don Reba, ma non batté ciglio. Fece finta di non aver sentito. «Avete trattato malissimo Budach» continuò Rumata. «È un medico eccellente. O meglio, lo era…» aggiunse. Per un altro istante, gli occhi del ministro brillarono di nuovo. «Aha» si disse Rumata. «Presumibilmente, Budach è ancora vivo…» Si sedette più comodamente, allacciando le mani intorno alle ginocchia. «Si rifiuta di confessare» disse Don Reba. «Che cosa?». «Di essere un usurpatore!» «Onorevole Don Reba» disse Rumata, con il tono indignato di un maestro di scuola. «Simili accuse di solito dovrebbero essere sorrette da prove concrete! Lei mi insulta!» Il viso di Don Reba assunse un’espressione dolce. «Mio caro Don Rumata» disse «mi perdoni se continuo a usare questo nome, per il momento. In genere, non ho l’abitudine di dimostrare alcunché. La prova viene da là, dalla Torre della Gioia. A questo scopo tengo al mio servizio degli specialisti, esperti e ben pagati, che lavorano con il tritacarne di san Michele, con le armi della forza divina, i guanti del Santo Martire Tata, o, per esempio, il posto a sedere, anzi, la sedia di ferro di Totz. Con questi mezzi possono provare qualunque cosa. Che Dio esiste, o che non esiste. Che gli uomini camminano sulle mani o addirittura sui fianchi. Mi capisce? Forse non lo sa, ma ottenere confessioni è oggetto di una scienza vera e propria. Ragioni un attimo: perché mai dovrei cercare di provare quello che già so? Inoltre, dopo che avrà confessato non le sarà fatto alcun male…» «Io non ho paura del male, ma lei sì» lo interruppe Rumata. Don Reba rifletté un attimo. «Bene» concluse. «Sembra proprio che dovrò cominciare. Esaminiamo in che modo Rumata di Estor si è distinto nei cinque anni in cui ha soggiornato nel regno di Arkanar. Dopo di che mi spiegherete tutto. D’accordo?» «Non faccio mai promesse avventate. Ma quello che ha da dire mi interessa». Don Reba cominciò a frugare nella scrivania, estrasse un fascio di carte e le esaminò aggrottando la fronte. «Sarà senz’altro al corrente» disse con un sorriso «che in qualità di ministro della Sicurezza Interna ho preso alcuni provvedimenti, nell’interesse della Corona, contro i cosiddetti topi di biblioteca, studiosi e altri elementi inutili e dannosi per lo Stato. Queste azioni hanno incontrato una strana resistenza. Mentre il popolo intero mi aiutava in un’ondata unanime di patriottismo e lealtà, denunciando i criminali nascosti, organizzando processi sommari, rivelando chi erano gli elementi sospetti che mi erano sfuggiti, allo stesso tempo uno sconosciuto faceva fuggire tutti i criminali più importanti, incorreggibili e detestabili, portandoli oltre confine. In questo modo sono scampati in molti, per esempio l’astrologo empio Bagir Kissenskij; l’alchimista criminale Synda, che, come è stato provato inconfutabilmente, era alleato con il diavolo e i potentati di Irukan; Zuren, quel vile scrittore di libercoli e disturbatore della quiete pubblica; e vari altri di minore importanza. Anche Kabani, il mago pazzo, è riuscito a nascondersi da qualche parte. Uno sconosciuto ha distribuito enormi somme di denaro per impedire al popolo di sfogare la sua giusta ira su quelle spie blasfeme, quegli avvelenatori dei medici personali di Sua Maestà. Qualcuno ha liberato Arata il gobbo, in circostanze tanto incredibili da farci sospettare una volta di più che lo sconosciuto fosse alleato a forze demoniache… Arata, un vero demone, un depravato che avvelena l’anima della nazione, l’istigatore e il capo delle ribellioni dei contadini…» Don Reba si fermò, corrugò la fronte e guardò Rumata in modo significativo. Rumata alzò gli occhi al soffitto, sorridendo estasiato. Era vero, aveva rapito Arata il gobbo con un elicottero. Sui carcerieri di Arata aveva fatto grande impressione. A dire il vero, anche su Arata. «Sono davvero in gamba, devo ammetterlo» si disse. «Avevo fatto un ottimo lavoro». «Sarà anche al corrente del fatto che il suddetto Arata si trova ora nel settore est della capitale, capeggia un esercito di schiavi ribelli che sta spargendo molto sangue nobile, e dispone di denaro e di armi». «Non mi è difficile crederlo» rispose Rumata. «Mi aveva dato l’impressione di essere un uomo molto deciso». «Allora confessa?» «Cosa?» chiese sorpreso Rumata. Tacquero un momento, guardandosi negli occhi. «Continuerò» disse Don Reba. «Per salvare tutti questi corruttori di anime, voi, Don Rumata, avete speso almeno cento libbre d’oro, secondo i miei calcoli approssimati per difetto. Tacerò sul fatto che il contatto con queste forze del male ha dannato la vostra anima per l’eternità. E anche sul fatto che non avete ricevuto una sola moneta di rame dalle vostre proprietà estoriane da quando siete arrivato ad Arkanar; certo, dopotutto, perché avreste dovuto ricevere del denaro? Perché mandare del denaro a un morto, anche se si tratta di un parente? Ma il suo oro! Il suo oro!» Aprì un forziere che era rimasto sepolto sotto una pila di carte sulla scrivania, e prese una manciata di monete d’oro con il profilo di Pitz Sesto. «Quest’oro sarebbe stato sufficiente per farla mandare al rogo!» gridò. «Quest’oro è opera del demonio! Mani umane non possono produrre oro di questa purezza!» Stava letteralmente trafiggendo Rumata con lo sguardo. «Devo ammettere onestamente che mi ha incastrato» pensò Rumata. «Touché. A questo non avevamo pensato. Bisogna dargliene atto: è stato il primo e l’unico ad accorgersene…» Ma Don Reba ridivenne improvvisamente gentile. Nella sua voce apparve un tono paterno e sollecito. «E, in generale, lei si sta comportando con molta imprudenza, Don Rumata. Mi sono sempre preoccupato per lei. Che duellante, che seminatore di zizzania! Centoventisei duelli in cinque anni! Senza mai uccidere nessuno… alla resa dei conti se ne potrebbero trarre delle conclusioni. Io, per esempio, l’ho fatto. E non sono l’unico. Prendete per esempio Frate Aba. Be’, anche se non si dovrebbe mai sparlare dei morti, era davvero un uomo crudele, e non ho mai potuto sopportarlo… Ebbene, Frate Aba aveva scelto non gli uomini più abili, ma quelli più grandi e grossi per farla arrestare. E alla fine ha avuto ragione. Qualche spalla slogata, qualche vertebra fratturata, qualche dente rotto… Ed eccola davanti a me! Ma non poteva sapere che per lei era questione di vita o di morte. Lei è un maestro! Indubbiamente il migliore spadaccino del paese. E ha indubbiamente venduto l’anima al diavolo, perché solo all’inferno si può imparare questa tecnica irraggiungibile. Sarei quasi propenso ad ammettere che questa abilità le sia stata data a condizione di non uccidere nessuno. Per quanto mi sia difficile immaginare perché il demonio dovrebbe insistere su una clausola come questa. Ma è un problema che spetta ai teologi risolvere…» Un urlo acuto e penetrante, come lo squittio di un maiale, interruppe le considerazioni di Don Reba. Seccato, guardò le pesanti tende lilla, dietro le quali si sentiva il rumore di persone che si azzuffavano. Si sentiva rumore di pugni, calci, qualcuno che gridava: «Lascia andare! Lascia andare!» e poi voci grossolane che imprecavano e gridavano in un dialetto incomprensibile. Improvvisamente la tenda si strappò e cadde a terra. Nello studio entrò carponi barcollando un uomo calvo, con il mento che sanguinava e gli occhi spalancati. Delle grosse mani uscirono da una fessura tra le tende, afferrarono l’uomo per i piedi e lo trascinarono dall’altra parte. Rumata lo riconobbe: era Budach. Urlava come un animale ferito: «Tradito! Sono stato tradito! Era veleno! Perché?» Lo fecero sparire nell’oscurità. Un uomo vestito di nero prese svelto la tenda caduta e la riappese al suo posto. Il silenzio improvviso fu interrotto dai rumori disgustosi che provenivano da dietro la tenda. Qualcuno stava vomitando. Rumata capì. «Dov’è Budach?» chiese bruscamente. «Come può vedere, ha avuto un piccolo incidente» rispose Don Reba, ma era chiaro che non era più sicuro di sé come prima. «Non cercate di confondermi» disse Rumata. «Dov’è Budach?» «Mio caro Don Rumata» cominciò Don Reba, scuotendo la testa. Si era ripreso. «Cosa vuole da Budach? Forse è vostro parente? Fino a ora non vi siete mai interessato a lui». «Mi ascolti, Reba». Rumata era diventato una furia. «Non scherzo. Se a Budach succede qualcosa, la strozzo con le mie mani! Morirà come un cane!» «Difficile» disse svelto Don Reba. Era pallidissimo. «Uno sciocco, Reba, ecco cos’è lei. Un maestro d’intrighi che in realtà non sa da che parte voltarsi. Non ha mai giocato un gioco pericoloso come questo. E non se ne rende conto». Il ministro si chinò sulla scrivania, con gli occhi come carboni ardenti. Anche Rumata sapeva di non essersi mai trovato in una situazione precaria come quella. Era ora di scoprire le carte: si sarebbe visto chi aveva la mano vincente. Rumata contrasse i muscoli, pronto a scattare. Non c’era arma, freccia o lancia che potesse ucciderlo all’istante: era scritto sul viso di Don Reba. E lui voleva continuare a vivere. «Cosa vuole?» chiese piagnucolando. «Abbiamo fatto una bella chiacchierata… Il suo Budach è vivo. Vivo e vegeto. Uno di questi giorni mi curerà anche. Non perda la calma». «Dov’è Budach?» «Nella Torre della Gioia». «Ho bisogno di lui!» «Anch’io, Don Rumata». «Mi ascolti, Reba: non mi provochi. E la smetta di fingere. Ha paura di me. E fa bene. Budach è mio, ha capito? Mio!» Ora erano tutti e due in piedi, uno di fronte all’altro. Il viso di Don Reba divenne uno spettacolo allarmante: si fece cianotico, cominciò a storcere febbrilmente le labbra e a parlare tra sé e sé sputando saliva. «Scarafaggio!» sibilò. «Io non ho paura di nessuno! Ti posso schiacciare come una mosca!» Si voltò con uno scatto e abbassò un arazzo appeso dietro di sé. Apparve una grande finestra. «Ecco, guarda!» Rumata andò alla finestra. Si apriva sulla piazza di fronte al palazzo. Stava albeggiando. Nel cielo si levava il fumo di molti incendi. La piazza era cosparsa di cadaveri. In mezzo si vedeva una massa nera rettangolare, completamente immobile. Rumata osservò meglio. Era un gruppo di cavalieri allineati con precisione straordinaria. Indossavano lunghi mantelli neri, con il cappuccio nero calato sugli occhi, e reggevano con la sinistra uno scudo nero triangolare mentre con la destra tenevano la lancia. «Prego» disse Don Reba con voce stridula. Tremava. «I valorosi e marziali figli del Signore nostro Dio: la cavalleria del Sacro Ordine. Sono sbarcati nottetempo nel porto di Arkanar per schiacciare la barbara insurrezione del ribaldo Waga Koleso, alleatosi con quegli arroganti dei mercanti e dei bottegai. La ribellione è stata domata. Il Sacro Ordine adesso domina la città e la nazione intera, che da ora si chiama Provincia Arkanariana del Sacro Ordine…» Istintivamente, Rumata si grattò la nuca. «Così ecco di che si tratta! Questa è la gente a cui quei disgraziati bottegai hanno spianato la strada. Che colpo da maestro!» Don Reba sorrideva trionfante. «Non ci siamo ancora presentati come si deve» continuò l’altro con la stessa voce stridula. «Mi permetta di presentarmi: Don Reba, rappresentante del Sacro Ordine nella Provincia Arkanariana. Vescovo e Consigliere di Guerra, servo di nostro Signore!» «In fondo non mi stupisce» pensò Rumata. «Quando trionfano i Grigi, sono sempre i preti a prendere il potere. Oh, voi storici potete andare al diavolo!» Ma fece finta di niente, intrecciò le mani dietro la schiena e cominciò a dondolarsi sui tacchi. «Adesso sono stanco» disse affettatamente. «Voglio andare a dormire. Voglio lavarmi e togliermi di dosso il sangue e gli sputi dei vostri tagliagole. Domani… Cioè oggi, diciamo un’ora dopo il sorgere del sole, verrò nel vostro ufficio. Per quel momento l’ordine di rilascio di Budach dovrà essere pronto». «Guardi là! Ventimila uomini!» gridò Don Reba, indicando la piazza. Rumata corrugò la fronte. «Per favore, non urli a quel modo! E ricordi, Don Reba: sono assolutamente certo che lei non sia affatto vescovo. La conosco bene. Lei è solo uno schifoso traditore, un intrigante vile e meschino…» Don Reba si leccò le labbra. I suoi occhi erano vitrei. «Io non perdono. Per ogni schifoso gioco in cui avrà coinvolto me o qualche mio amico, pagherà con la vita! Io la odio, lo tenga bene in mente! Dovrò tollerarla, ma deve imparare fin d’ora a non intralciarmi. Capito?» Don Reba, con un sorriso viscido, rispose: «Desidero una cosa soltanto. Voglio che sia al mio fianco, Don Rumata. Non posso ucciderla. Non so perché, ma non posso farlo!» «Perché ha paura». «Va bene, allora ho paura. Forse lei è il diavolo, forse il figlio di Dio. Chissà? Oppure, forse viene da qualche regno lontano e potente: si dice che esistano davvero. Non voglio neppure provare a sbirciare dentro l’abisso che l’ha inghiottita. Comincio a sentirmi confuso e vicino all’eresia. Sì, posso farla uccidere in qualunque momento. Ora. Domani. Ieri… Lo capisce questo?» «La cosa non mi interessa». «E allora? Che cosa le interessa?» «Niente» rispose Rumata. «Voglio solo divertirmi. Non sono né un demone né un dio, sono il Cavalier Rumata di Estor, un gentiluomo, un cortigiano, oppresso dalle proprie idiosincrasie e dai propri pregiudizi, abituato a essere libero sotto tutti i punti di vista. Se lo metta in testa!» Don Reba aveva di nuovo ripreso il controllo di sé. Si passò un fazzoletto sul viso sudato e sorrise con compiacenza. «Apprezzo la sua inflessibilità. In fondo anche lei si batte per una causa. E rispetto i suoi ideali, anche se non riesco a capirli. Sono molto felice di aver parlato con lei, sinceramente. Può darsi che un giorno mi farà conoscere più a fondo il suo punto di vista, e, chissà, potrebbe convincermi a cambiare il mio. Tutti gli uomini sono soggetti all’errore. Può anche darsi che sia io a sbagliare, che gli ideali per i quali vale la pena di lottare così strenuamente non siano i miei. Sono un uomo di larghe vedute, e non mi è difficile immaginare che un giorno lavoreremo insieme, fianco a fianco…» «Questo è tutto da vedere!» disse Rumata, e uscì. «Che leccapiedi!» pensò. «Sarebbe proprio un valido collaboratore! Fianco a fianco…» La città era in preda a un terrore indicibile. Il sole rosso sangue del mattino illuminava un tetro scenario fatto di strade deserte, rovine fumanti, persiane e porte sfondate. Nella polvere scintillavano cocci di vetro insanguinati. Sciami di folla calavano sulla città come verso un cimitero. Pattuglie formate da due o tre cavalieri vestiti di nero trottavano sui loro cavalli negli spazi aperti e agli incroci. Ondeggiavano lentamente sulla sella. Dappertutto si vedevano pali conficcati alla meglio nel terreno, a cui erano legati corpi mutilati che ciondolavano sugli ultimi tizzoni dei roghi. Sembrava che in tutta la città non fosse rimasto niente di vivo, tranne i corvi disgustosi che gracchiavano e i boia affaccendati vestiti di nero. Rumata attraversava la città. Teneva quasi sempre gli occhi chiusi, respirava a fatica e il corpo pieno di lividi gli doleva dappertutto. «Si possono ancora chiamare esseri umani? Alcuni sono stati massacrati per strada, mentre altri si nascondono nelle case, aspettando pazienti il loro turno. E tutti pensano: che importa cosa succede, finché non tocca a me… Io riuscirò a sfuggire. Bestialità a sangue freddo dei massacratori, obbedienza a sangue freddo dei massacrati. Atteggiamenti stupidi a sangue freddo, questa è la cosa peggiore. Dieci persone immobili, paralizzate dalla paura, aspettano pazientemente che venga qualcuno a scegliere una vittima a cui tagliare la gola a sangue freddo. L’anima di questa gente è sozza, e ogni ora di attesa paziente l’insozza ancora di più. Senza volerlo, queste case che si rannicchiano per la paura daranno vita ai peggiori criminali, informatori e assassini. Migliaia di persone che saranno schiave della paura e del terrore per tutta la vita, che ai figli insegneranno la paura e il terrore, i quali a loro volta li insegneranno ai loro figli… Non ce la faccio più. Sto impazzendo, diventerò come questa gente. Non ci vorrà molto perché dimentichi il motivo per cui sono qui… Devo trovare di nuovo un punto fermo, voltare le spalle per un po’ a tutto questo, trovare un po’ di pace e tranquillità… ‘«…Alla fine dell’anno della Grande Acqua, anno X della nuova era, i processi centrifughi guadagnarono rapidamente terreno nel vecchio impero. Avvantaggiandosi di questo, il Sacro Ordine, che rappresentava gli interessi dei gruppi più reazionari della società feudale e che cercava in tutti i modi di porre un freno alla decadenza generale…’ Ma hai mai sentito il puzzo dei cadaveri bruciati sul rogo? Sai com’è? Hai mai visto una donna nuda rotolarsi con il ventre squarciato nella polvere della strada? Hai mai visto città dove gli esseri umani tacciono e si sentono solo i corvi?» Urtò con il petto in qualcosa di duro e appuntito. Alzò lo sguardo e vide davanti a sé un cavaliere nero. Una lunga lancia con la lama larga e finemente seghettata era premuta contro le sue costole. Il cavaliere lo guardava silenzioso da dietro le fessure del suo cappuccio nero, che rivelava solo una bocca dalle labbra sottili e un mento sfuggente. «Devo fare qualcosa» si disse Rumata. «Ma cosa? Disarcionarlo? No». Il cavaliere ritrasse lentamente il braccio destro, puntando la lancia. Il gesto fece venire in mente a Rumata che cosa doveva fare. Alzò casualmente la mano sinistra, tirando indietro la manica. Apparve un braccialetto di ferro. Gli era stato dato prima che lasciasse il palazzo. Il cavaliere esaminò il braccialetto, abbassò l’arma e si spostò per farlo passare. «In nome del Signore» disse con uno strano accento. «Benedetto sia il Suo nome» mormorò Rumata. Un po’ più in là c’era un altro cavaliere, occupato ad abbattere dall’orlo di un tetto una serie di figurine scolpite che rappresentavano dei demoni. Al secondo piano, un viso grasso e distorto dal terrore sbirciava dalle persiane semichiuse. Era probabilmente uno di quei bottegai che solo tre giorni prima avevano urlato entusiastici urrà per Don Reba, brindando con un boccale di birra e ascoltando con piacere il rumore degli scarponi chiodati dei soldati Grigi sul selciato. «Oh, Grigi, Grigi…» Rumata distolse lo sguardo. «Ma che starà succedendo a casa?» gli venne di colpo in mente, e cominciò ad affrettare il passo, mettendosi quasi a correre nell’ultimo tratto di strada. La casa era intatta. Due monaci erano seduti sotto il portico. Avevano tirato indietro i cappucci, esponendo al sole le loro teste mal rasate. Appena lo videro scattarono in piedi. «In nome del Signore» dissero all’unisono. «Benedetto sia il Suo nome» rispose Rumata, e chiese: «Che cosa ci fate qui?» Entrambi s’inchinarono e piegarono il braccio sullo stomaco. «Adesso che siete arrivato possiamo andare» disse uno dei due. Scesero i gradini e si allontanarono, nascondendo nelle lunghe maniche le braccia incrociate. Rumata li seguì con lo sguardo, ricordando le migliaia di volte in cui aveva visto quelle umili figure camminare per strada nei loro lunghi abiti neri. Ma allora non trascinavano dietro di sé i foderi delle spade. «Su questo ci siamo sbagliati» pensò. «Che bel passatempo era stato per i gentiluomini accodarsi a qualche monaco solitario che camminava per la strada e raccontarsi storielle oscene proprio sotto il suo naso. Stupido che sono. Facevo finta di essere ubriaco e camminavo dietro di loro, ridendo di gioia perché il paese, se non altro, era immune dal fanatismo religioso. Ma che altro avremmo dovuto fare? Davvero, che altro avremmo dovuto fare?» «Chi è?» chiese una voce. «Apri, Muga, sono io» disse piano Rumata. I chiavistelli scattarono. La porta si aprì leggermente e Rumata s’infilò nella stretta fessura. Nell’atrio tutto era come al solito, e Rumata tirò un sospiro di sollievo. Il vecchio Muga con i capelli argentei e la testa perennemente tremolante prese l’elmetto e le spade del padrone. «Come sta Kyra?» «Kyra è di sopra. Sta bene». «Magnifico» disse Rumata slacciandosi la cintura. «E dov’è Uno? Perché non è qui ad accogliermi?» Muga prese la cintura. «Uno è morto» disse con voce calma e decisa. «È nelle stanze della servitù». Rumata chiuse gli occhi. «Uno è morto…» ripeté. «Chi l’ha ucciso?» Senza aspettare la risposta, andò a vedere. Il cadavere di Uno era disteso sul tavolo. Era coperto da un lenzuolo fino alla vita. Aveva le mani piegate sul petto, gli occhi spalancati e la bocca distorta in una smorfia. I servitori erano radunati intorno al tavolo, a capo chino, e ascoltavano i mormorii del monaco che pregava in un angolo. La cuoca singhiozzava. Senza distogliere lo sguardo dal ragazzo, Rumata si sbottonò il colletto. «Cani maledetti!» esclamò. «Bestie schifose!» Inciampando in qualcosa si avvicinò al tavolo, guardò quegli occhi senza vita, alzò leggermente il lenzuolo e lo lasciò ricadere subito. «Sì, troppo tardi» disse. «Troppo tardi. Bastardi! Chi l’ha ucciso? I monaci?» Si voltò verso il monaco, lo afferrò per la collottola, lo gettò a terra e si chinò sul suo viso. «Chi l’ha ucciso?» chiese. «È stato uno di voi? Parla!» «No, non i monaci» disse una voce calma dietro di lui. «Sono stati i soldati Grigi». Rumata guardò per un momento il viso emaciato del monaco, le cui pupille cominciavano lentamente a dilatarsi. «In nome del Signore» piagnucolò. Rumata lo lasciò andare, si sedette su una panca ai piedi del cadavere e cominciò a piangere. Si coprì il viso con le mani, e ascoltò la voce quieta e monotona di Muga. Il vecchio disse che, poco dopo la seconda veglia, avevano sentito bussare al portone. Uno aveva gridato di non aprire, ma erano stati costretti a farlo quando i soldati Grigi avevano minacciato di incendiare la casa. Erano entrati a forza, avevano picchiato e legato i servi, poi avevano salito le scale. Uno faceva la guardia di sopra. Il ragazzo aveva cominciato a tirare con la balestra. Aveva due colpi e li aveva tirati entrambi. La seconda freccia aveva mancato il bersaglio. I Grigi avevano lanciato i coltelli e Uno era caduto. Lo avevano trascinato giù dalle scale e stavano già per prenderlo a calci e colpirlo con le mannaie, quando, improvvisamente, erano entrati in casa i monaci neri. Avevano ucciso due Grigi e disarmato gli altri, quindi avevano legato loro delle corde intorno al collo e li avevano trascinati in strada. Muga tacque. Ma Rumata restava seduto con i gomiti appoggiati sul tavolo davanti ai piedi del ragazzo morto. Si alzò lentamente, si asciugò gli occhi con la manica, baciò la fronte fredda del giovane. Poi salì di sopra, facendo un passo dopo l’altro con uno sforzo enorme. Non si reggeva in piedi per la fatica e la debolezza. Si sforzò di arrivare al pianerottolo e attraversò la stanza degli ospiti per andare al suo letto. Cadde a faccia in giù sul cuscino con un gemito. Kyra accorse, ma lui era così distrutto da non riuscire neppure ad aiutarla a togliergli i vestiti sporchi. La ragazza gli sfilò gli stivali, pianse vedendo il suo viso martoriato, gli levò l’uniforme e la maglia di metalloplast e continuò a piangere silenziosamente sul suo corpo pieno di lividi. Ora, improvvisamente, lui sentì che gli facevano male le ossa, come se lo avessero messo sulla ruota di tortura. Mentre Kyra gli passava una spugna inzuppata d’acqua e aceto, Rumata ansimava e sibilava, con gli occhi chiusi: «Avrei potuto ucciderlo… Mi stava proprio di fronte… Strozzarlo con le mie mani… È vita questa, Kyra? Andiamocene da qui… In fondo l’esperimento lo stanno facendo su di me, non su di loro…» Non si rese neppure conto di parlare nella sua lingua originaria. Kyra lo guardò ansiosamente con gli occhi lucidi di lacrime e gli tempestò le guance di baci. Dopo averlo coperto con le lenzuola rammendate (Uno non ne aveva comprate di nuove nonostante gli ordini del padrone), Kyra corse di sotto a preparargli del vin brulé. Gemendo per il dolore fisico e psichico, Rumata scese dal letto e si trascinò nello studio. Aprì un cassetto segreto nella scrivania, frugò nel contenitore delle medicine e prese alcune pastiglie di Sporamina. Quando Kyra ritornò con un bricco fumante su un vassoio d’argento, era già tornato a letto. Sentì che il dolore lo abbandonava, che il ronzio nelle orecchie si affievoliva, e che il corpo recuperava le forze. Bevve tutto il contenuto del bricco e presto si sentì meglio. Poi chiamò Muga e gli disse di far preparare i suoi vestiti. «Non andare, Rumata» disse Kyra. «Non andare! Resta a casa!» «Devo andare, cara!» «Ho paura. Resta qui… Ti uccideranno!» «Non dire così. Perché dovrebbero uccidermi? Hanno tutti paura di me, no?» Lei ricominciò a piangere, ma silenziosamente, come per timore di dargli fastidio. Rumata la fece appoggiare sul suo grembo e le accarezzò dolcemente i capelli. «Il peggio è passato» disse. «E ricordati che ce ne andremo…» Lei si calmò e si strinse a lui. Muga aspettava paziente, tenendo in mano i pantaloni di Rumata ornati di campanelli d’oro. «Ma prima di andarcene, ho molto da fare» continuò Rumata. «Stanotte sono stati uccisi a migliaia. Devo scoprire chi è ancora vivo e chi è stato ammazzato. E devo aiutare chi è ancora in pericolo». «E chi aiuterà te?» «Fortunato l’uomo che pensa solo agli altri… E inoltre, qualcuno molto potente verrà in nostro soccorso, se necessario». «Non riesco a pensare agli altri. Sei tornato a casa più morto che vivo. Lo vedo con i miei occhi come ti hanno picchiato. E Uno è stato ucciso. Dov’era questa potenza quando ne avevi bisogno? Perché non ha impedito tutti questi massacri? Io non ti credo… Non ti credo…» Kyra cercò di liberarsi dal suo abbraccio, ma lui la tenne stretta. «E stata solo sfortuna» le disse. «Questa volta sono arrivati un po’ troppo tardi. Ma adesso ci stanno guardando di nuovo e ci proteggeranno. Perché oggi non mi credi? Mi hai sempre creduto. Non lo vedi da te? Sono tornato a casa mezzo morto, e adesso guardami!» «Non ho voglia di guardarti» disse lei, nascondendosi il viso. «Non voglio ricominciare a piangere». «Su, su! Per questi graffi? Non è niente! Adesso il peggio è passato… Almeno per noi due. Ma ci sono persone perbene per le quali non è così. E devo aiutarle». Lei sospirò, lo baciò sul collo e si liberò piano dal suo abbraccio. «Torna stanotte» lo implorò. «Tornerai?» «Puoi contarci» rispose con sicurezza. Sorrise. «Sarò a casa prima che faccia notte, e molto probabilmente non da solo. Sarò di ritorno per cena». Kyra andò verso una poltrona, si sedette, si abbracciò un ginocchio con le mani e stette a guardare Rumata che si vestiva. Mentre si infilava i pantaloni questi parlava tra sé nella sua lingua originaria. Muga era seduto per terra a gambe incrociate davanti a lui, e cominciò ad allacciargli i bottoni e le fibbiette. Rumata indossò una maglietta pulita sotto la maglia di metalloplast. Infine disse, con tono disperato: «Cara, ti prego, cerca di capire! Devo andare! Che cosa posso fare? È fuori discussione che io rimanga qui!» Improvvisamente lei disse, pensosa: «Qualche volta mi domando perché non mi picchi mai». Rumata stava abbottonandosi la camicia di pizzo. Si fermò, raggelato. «Cosa vuoi dire?» le chiese, perplesso. «Come si potrebbe pensare di picchiarti?» «Tu non sei solo un uomo buono, molto buono» continuò Kyra senza ascoltarlo «sei anche un uomo molto strano, sembri quasi un arcangelo. Quando sei con me mi sento fortissima. Adesso, per esempio, sono forte. Una volta o l’altra te lo chiederò. Un giorno mi parlerai di te? Non ora, solo quando tutto questo sarà finito. Lo farai per me?» Rumata tacque a lungo. Muga gli porse la giacca arancione con i nastri rossi. Lui l’indossò con fastidio e allacciò la cintura. «Sì» disse poi. «Un giorno ti racconterò tutto». «Aspetterò» rispose lei seriamente. «Ma adesso devi andare. Non farti trattenere da me». Rumata si avvicinò e premette teneramente le labbra livide sulle sue. Poi si tolse dal polso il braccialetto di ferro e glielo diede. «Mettitelo a1 polso sinistro. Non credo che oggi verranno a trovarci di nuovo… Ma nel caso si facciano vivi mostra loro questo braccialetto». Lei lo seguì con lo sguardo e Rumata sentì che lo stava chiamando in silenzio. «So che sta pensando: ‘Non so chi sei, forse il diavolo, forse il Figlio di Dio, forse un uomo che viene da mondi leggendari al di là dei mari, ma una cosa è certa: se non ritorni, morirò’«. Le fu grato per il suo silenzio, perché doverla lasciare era stranamente difficile. Come gettarsi a capofitto da un mare limpido di smeraldo in una pozzanghera. Capitolo VIII Rumata decise di non andare direttamente negli uffici di Don Reba di Arkanar. Strisciò di soppiatto lungo i cortili, si nascose dietro file di stracci appesi ad asciugare, si infilò dentro i buchi nelle palizzate, impigliandosi con i nastri e i preziosi pizzi di Soan nei chiodi arrugginiti, e camminò a quattro zampe tra i mucchi di patate. Ma nonostante tutti gli sforzi non riuscì a eludere l’occhio vigile dei monaci neri. Girando in un vicolo stretto che portava alla discarica, ne incontrò due, cupi e ubriachi. Cercò di evitarli, ma i monaci sguainarono le spade e gli bloccarono il passaggio. Mentre anche lui afferrava le spade, i monaci fischiarono per chiamare rinforzi. Rumata stava per ritornare nel buco della palizzata da cui era uscito, quando un omino agile dal viso insignificante corse verso di lui. Urtò contro la spalla di Rumata, si precipitò verso i monaci e sussurrò loro qualcosa, al che i due sollevarono le vesti, scoprendo i nastri lilla avvolti intorno alle gambe, e se ne andarono, sparendo presto dietro alcune case. L’omino li seguì senza voltarsi. «Così va la faccenda» pensò Rumata. «Una spia, una guardia del corpo. E non si cura neppure di fare il suo lavoro di nascosto. Il nostro nuovo vescovo pensa davvero a tutto. Sarebbe interessante sapere se ha paura di me o per me». Seguendo con lo sguardo la spia, Rumata andò verso la discarica, che portava al retro degli edifici dell’ex ministero della Sicurezza Interna. Sperava che non ci fosse nessuno di guardia. Il vicolo era deserto. Non si vedeva anima viva. Ma subito sentì lo scricchiolio delle persiane, delle porte aperte e richiuse, un neonato che piangeva e un mormorio ansioso che avvolgeva tutto. Da dietro una staccionata cadente sbucò un viso emaciato, annerito da strati di sporcizia. Due occhi vuoti spaventati guardarono Rumata. «Le chiedo scusa, nobile signore; mi perdoni, la prego. Forse il nobile signore potrebbe dirmi cosa sta succedendo in città? Sono Kickus il fabbro, detto anche lo Zoppo. Vorrei andare alla mia forgia, ma ho paura…» «Non andarci» disse Rumata. «Con questi monaci c’è poco da scherzare. Il Re è morto. Don Reba ha preso il potere. Adesso è vescovo del Sacro Ordine. È meglio che tu resti a casa». Il fabbro accompagnò ciascuna parola di Rumata con un cenno entusiastico della testa, mentre gli occhi gli si riempivano di malinconia e disperazione. «Il Sacro Ordine. Dice davvero?» borbottò. «Sarò dannato… Le chiedo perdono, nobile signore. Così, l’Ordine… Sono i Grigi, vero?» «No, no» rispose Rumata, guardandolo con una certa curiosità. «I Grigi sono stati sconfitti. Questi sono i monaci». «Oh povero me! Allora i Grigi sono… i Grigi sono stati sconfitti? Non male, direi. Ma cosa ci succederà adesso, nobile signore, che ne dice? Dovremo conformarci, eh? Conformarci al Sacro Ordine, vero?» «Perché no? L’Ordine dovrà pure mangiare e bere. Adattatevi a loro!» Di colpo il fabbro si animò. «È quello che penso anch’io, signore. Dobbiamo adattarci e conformarci. Penso che la cosa principale sia vivere e lasciar vivere. È così?» Rumata scosse la testa. «Oh, no» disse. «Quelli che resteranno calmi e pacifici saranno i primi a morire». «Mi sembra anche giusto, in fondo. Ma noi cosa dovremmo fare? Un uomo solo è debole come un mignolo, e tutti quei preti ci stanno addosso. Oh, madre gloriosa, se solo tagliassero la gola al mio padrone! Era ufficiale dei Grigi. Che ne dice, signore, è possibile che gli abbiano fatto la festa, vero? Sa, gli devo cinque monete d’oro». «Non saprei. Potrebbero averlo fatto fuori, possibile. Ma vorrei che tu pensassi a una cosa: è vero che da solo sei debole come un mignolo, ma ci sono migliaia di mignoli come te in questa città». «E allora?» «Niente, pensaci!» disse infastidito Rumata e si allontanò. «Per il bene che potrà fargli un simile consiglio» pensò Rumata. «Per lui è ancora troppo presto per cercare di pensare. Come potrebbero essere semplici le cose, qui: migliaia di pugni come questo, se infuriati a dovere, potrebbero fare polpette di chiunque. Ma non sono ancora a questo punto. Non hanno ancora sperimentato la giusta furia. Solo la paura. Ognuno per sé, e Dio per tutti». I cespugli di sambuco che orlavano la strada cominciarono improvvisamente a muoversi e a ondeggiare, e saltò fuori Don Tameo. Nel momento in cui vide Don Rumata, Don Tameo esplose di gioia; malgrado la mole balzò agilmente in piedi, e si avvicinò barcollando, stendendo le mani sporche verso Rumata. «Mio nobile amico!» gridò. «Che gioia! Vedo che anche lei sta andando verso la cancelleria». «Sì, infatti, signore» rispose Don Rumata. Si divincolò, liberandosi subito dall’abbraccio di Don Tameo. «Mi permette di unirmi a lei, signore?» «Sarà un onore per me, signore». Si inchinarono. In apparenza, Don Tameo non aveva ancora calmato la sete della mattina. Dalle pieghe dei suoi ampi pantaloni gialli estrasse una fiaschetta del migliore. «Le andrebbe di bere qualcosa con me?» chiese, facendo un gesto elegante con la bottiglia. «No, grazie» rispose Rumata. «Rum! Vero rum della capitale! L’ho pagato a peso d’oro!» Scesero lungo la discarica. Tennero il naso chiuso mentre passavano attraverso mucchi di spazzatura, cani morti, pozzanghere puzzolenti brulicanti di vermi. L’aria mattutina era piena del ronzio incessante di milioni di mosche smeraldine. «Stranissimo» disse Don Tameo, tappando la bottiglia. «Non ero mai stato qui». Rumata restava zitto. «Sono sempre stato un ammiratore di Don Reba» continuò Don Tameo. «Ho sempre saputo che prima o poi avrebbe cacciato dal trono quel buono a nulla del Re, aprendoci nuove strade e offrendo nuove prospettive alla nazione». A quelle parole scivolò in una pozzanghera verdastra, schizzandosi di fango dalla testa ai piedi, ma riuscendo ad aggrapparsi al braccio di Rumata per non cadere a faccia in giù. «Oh, sì» riassunse le sue considerazioni dopo essersi rimesso in piedi. «Noi, i giovani aristocratici, saremo sempre sostenitori di Don Reba! Adesso ci dimostreranno il dovuto rispetto. Giudicate da voi, mio nobile amico, è un’ora che cammino per le strade e non ho ancora incontrato uno solo di quei bastardi Grigi. Abbiamo cancellato la feccia Grigia dalla faccia della terra. Ah, che meraviglia poter respirare di nuovo nella nostra nuova Arkanar! Al posto dei bottegai arroganti, degli imbroglioni, di quei pidocchi dei contadini, ora nelle strade ci sono i Servi di Dio. L’ho visto con i miei occhi: i nobili camminano apertamente davanti ai loro palazzi. Non devono più temere che qualche sciocco con il grembiule da vetturino li schizzi di fango con le ruote del carro! E non c’è più bisogno di farsi largo a gomitate tra le file dei macellai. Ispirati dalla benedizione del Sacro Ordine, per il quale devo ammettere di aver sempre nutrito grande ammirazione e simpatia, ci stiamo avviando verso un’era di gloria inaudita. Nessun contadino si permetterà più di alzare lo sguardo su un nobile senza essersi procurato prima un permesso speciale che dovrà essere firmato dall’ispettore distrettuale del Sacro Ordine. Sto appunto andando a consegnare una petizione scritta a questo proposito». «Che puzza» disse Rumata. «Sì, disgustosa» disse Don Tameo, rimettendo il tappo alla bottiglia. «Comunque, d’altro canto, come respiriamo liberamente nella nostra nuova Arkanar! E il prezzo del vino da ieri è calato della metà…» Quando arrivarono in fondo al vicolo Don Tameo aveva vuotato la fiaschetta, che gettò via. Cominciò a essere stranamente agitato, cadde due volte con la faccia a terra, rifiutò di ripulirsi i vestiti insozzati dichiarando che essere impuro era la sua condizione naturale, che desiderava presentarsi così al suo nuovo padrone. Recitò più volte la sua petizione a gola spiegata: «Come parlo meravigliosamente!» urlava. «Per esempio, considerate questo passaggio, signori! ‘Affinché i luridi contadini…’ Eh? Non è un’intuizione stupenda?» Entrando nel cortile dietro la cancelleria Don Tameo si scontrò con un monaco, scoppiò in lacrime e chiese perdono per i suoi peccati. Il monaco, mezzo soffocato, cercò di difendersi dalla sua presa ferrea e di chiedere aiuto con un fischio, ma Don Tameo gli si aggrappò alla veste e caddero tutti e due in un mucchio di spazzatura. Rumata li lasciò dov’erano e si allontanò. Anche da lontano continuava a sentire i fischi e le urla: «Affinché i luridi contadini! La vostra be-be-benedizione!… Con tutto il cuore!… Io avevo compassione, compassione, capito, villano schifoso?» Sulla piazza di fronte all’ingresso della cancelleria stazionava un distaccamento di monaci di fanteria armati di rozzi manganelli. Avevano rimosso i cadaveri dalle strade. Il vento mattutino spingeva colonne di polvere giallastra attraverso la piazza. L’ombra rettangolare della Torre della Gioia si proiettava sui soldati. Sotto il largo tetto conico della Torre i corvi gracchiavano e litigavano come al solito. In alto sporgeva una trave a cui si impiccavano i condannati a testa in giù. La Torre era stata costruita due secoli prima dagli antenati del Re, al solo scopo di tenere lontani i nemici in caso di guerra. Elevata su fondamenta solidissime, era una struttura a tre piani che poteva servire da magazzino viveri in caso di assedio prolungato. Più tardi la Torre era stata utilizzata come prigione. Poi, in seguito a un terremoto, tutti i pavimenti e i soffitti all’interno erano crollati, e la prigione dovette essere trasferita a livello delle fondamenta. Una volta una regina di Arkanar si era lamentata che le grida dei prigionieri torturati la disturbavano, e così il consorte aveva decretato che una banda militare dovesse suonare dal mattino presto fino a tarda notte. Era stato allora che aveva assunto il nome che ancora aveva. Ormai era solo un guscio vuoto di pietra: le sale di tortura erano state trasferite da tempo nelle buche più profonde delle cantine e l’orchestra aveva smesso di suonare i suoi concerti quotidiani, ma i cittadini continuavano a chiamarla con lo stesso nome, Torre della Gioia. Di solito la zona intorno alla Torre era deserta. Ma quel giorno brulicava di gente. I monaci soldati conducevano, spingevano, trascinavano orde di Sturmovik con le uniformi strappate, vagabondi, straccioni, cittadini mezzi nudi paralizzati dalla paura, ragazze che urlavano istericamente. I soldati male in arnese dell’armata di Koleso, che lanciavano sguardi sprezzanti, venivano spinti come mandrie di bestiame. I monaci tiravano fuori i cadaveri dalle botole con dei ganci, li gettavano sui carri e li trasportavano fuori dalla città. Nella lunga coda di cortigiani e di privilegiati che attendevano davanti alle porte della cancelleria, l’ultimo della fila osservava inorridito l’orribile traffico. Tutti venivano ammessi all’interno della cancelleria; qualcuno veniva aggregato a un gruppo. Rumata si fece largo a gomitate. Dentro l’aria era appiccicosa e pesante come nella discarica. A un’enorme scrivania coperta di fasci di carte sedeva un ufficiale dal colorito grigio giallastro. Dietro l’orecchio sinistro teneva una grande penna d’oca. Il richiedente di turno, il nobile Don Keu, giocherellava sprezzante con il baffo annunciando il suo nome. «Si tolga il cappello» disse l’ufficiale con voce monotona, senza alzare gli occhi dalle sue carte. «Il clan dei Keu ha il privilegio di portare sempre il cappello, anche in presenza del Re» disse orgogliosamente Don Keu. «Davanti al Sacro Ordine nessuno ha più privilegi» rispose l’ufficiale con la stessa voce monotona. Don Keu cominciò a sibilare e diventò rosso, ma si tolse il cappello. L’ufficiale faceva scorrere il dito sottile e giallastro lungo il foglio. «Don Keu… Don Keu» mormorò. «Don Keu… Via Reale, numero 12?» «Sì» rispose lui con voce irritata. «Numero 485, Frate Tibak». Frate Tibak, con il viso rubizzo e il fiato corto, era seduto alla scrivania accanto. Frugò in certi documenti, si asciugò il sudore dalla fronte, si alzò in piedi e lesse con voce piatta: «Numero 485, Don Keu, Via Reale numero 12, colpevole di bestemmia contro il nome di Sua Magnificenza il Vescovo di Arkanar, Don Reba, due anni fa a un ballo reale, è condannato a trentasei colpi di frusta sulla schiena nuda e a baciare la scarpa di Sua Magnificenza». Frate Tibak riprese il suo posto. «Vada in quel corridoio» disse l’ufficiale con la sua voce incolore. «Le frustate a destra, la scarpa a sinistra. Il prossimo». Con grande sorpresa di Rumata, Don Keu non cercò neppure di protestare. Evidentemente doveva aver visto molte cose mentre aspettava in fila. Squittì una volta, si toccò i baffi con grande dignità ed entrò nel corridoio. Il successivo era l’enorme Don Pifa, una massa di grasso tremolante. Si era già tolto il cappello facendo un passo avanti. «Don Pifa… Don Pifa» borbottò l’ufficiale, facendo scorrere il dito sul foglio davanti a lui. «Via Lattai, numero 2?» Don Pifa fece un suono gorgogliante. «Numero 504, Frate Tibak». Frate Tibak si toccò la pelata e si alzò in piedi. «Numero 504, Don Pifa, Via Lattai numero 2. Non sono state rilevate sue offese contro Sua Magnificenza, e di conseguenza è puro». «Don Pifa» disse l’ufficiale. «Ricevete l’attestato di condotta irreprensibile». Si chinò su una cassetta accanto alla sedia e prese un braccialetto di ferro che diede al gentiluomo. «Da portarsi al polso sinistro, da presentarsi immediatamente quando richiesto dai guerrieri del Sacro Ordine. Il prossimo». Don Pifa fece di nuovo un gorgoglio, con gli occhi incollati al braccialetto, e uscì dalla stanza. L’ufficiale dalla voce incolore stava già chiamando il nome successivo. Rumata guardò la gente che si era messa in coda ad aspettare. Tra la folla c’erano molti visi familiari. Alcuni erano vestiti bene come al solito, altri erano visibilmente caduti in disgrazia, ma ricchi e poveri erano tutti inzaccherati di fango. In mezzo alla fila, Don Sera disse per la terza volta in cinque minuti, ad alta voce: «Non vedo proprio perché un gentiluomo non possa prendersi anche qualche bella sferzata, in nome di Sua Magnificenza!» Rumata aspettò che inviassero nel corridoio anche il successivo. Era un pescivendolo ben conosciuto, condannato a cinque colpi di bastone, senza bacio della scarpa, a causa di pensieri illeciti. Quindi Rumata si fece largo fino alla scrivania e senza tanti complimenti posò la mano sul fascio di carte dell’ufficiale. «Scusate. Mi serve un ordine ufficiale di scarcerazione per il dottor Budach. Sono Don Rumata». L’ufficiale non alzò gli occhi. «Don Rumata… Don Rumata» borbottò, spinse da parte la mano di Rumata e fece scorrere il dito su una lista di nomi. «Ma che stai facendo, scribacchino? Mi serve un ordine di scarcerazione!» disse Rumata. «Don Rumata… Don Rumata». Impossibile scalfire l’automatismo fossilizzato del burocrate. «Via Spengler numero 8. Numero 16, Frate Tibak». Rumata, si accorse che tutti, dietro di lui, trattenevano il respiro. Ma per essere sinceri, anche lui si sentiva leggermente a disagio. Frate Tibak, con la faccia rossa e sudata, si alzò in piedi. «Numero 16, Don Rumata, Via Spengler numero 8, per servizi speciali a favore della causa del Sacro Ordine, riceve un’espressione di ringraziamento particolare da Sua Magnificenza. Sua Magnificenza concede quindi graziosamente un editto per il rilascio del dottor Budach, della cui persona gli sarà permesso di disporre a sua discrezione, vedi modulo 6/17/11». L’ufficiale procedette subito a estrarre il modulo dalla pila di documenti alla sua destra e lo diede a Don Rumata. «Dopo la porta gialla, secondo piano, stanza sei, in fondo al corridoio, la prima a destra e poi la prima a sinistra» disse senza muovere neppure un muscolo. «Il prossimo». Rumata scorse velocemente il contenuto del documento. Non era un ordine di rilascio per il dottor Budach. Era solo un documento per ottenere un permesso di entrata nel quinto dipartimento speciale della cancelleria, dove avrebbe potuto ritirare una raccomandazione per il segretario della polizia segreta. «Che cosa mi hai dato, imbecille! Dov’è l’ordine ufficiale di rilascio?» chiese. «Dopo la porta gialla, secondo piano, stanza sei, in fondo al corridoio, la prima a destra e poi la prima a sinistra» ripeté l’ufficiale. «Ti ho chiesto dov’è l’ordine di rilascio!» gridò Rumata. «Non ne ho la più pallida idea… Assolutamente… Il prossimo!» Sopra le orecchie Rumata sentì un respiro ansimante e qualcosa di morbido contro la schiena. Si scostò con un movimento rapido e risoluto. Era Don Pifa, che era tornato indietro. «Non è della mia misura» si lamentò. L’ufficiale alzò lo sguardo e lo guardò con i suoi occhi vuoti e stanchi. «Nome? Rango?» chiese. «Non mi va bene» ripeté Don Pifa, spingendo con forza il braccialetto che non riusciva a passare neppure attraverso tre dita. «Non va bene… Non va bene…» mormorò uno degli ufficiali, e afferrò subito un librone che stava in un angolo della scrivania. Il libro aveva un aspetto minaccioso, con la sua copertina nera e unta. Per un attimo Don Pifa fissò confuso il libro, poi fece un passo indietro e senza dire più niente si avviò verso l’uscita. Dalla fila delle voci cominciarono a lamentarsi: «Non farci aspettare! Vuoi sbrigarti?» Anche Rumata si allontanò dalla scrivania. «Bestia schifosa, ti faccio vedere io!» pensò. L’ufficiale cominciò a leggere ad alta voce il libro: «Nel caso che detto braccialetto non si adatti al polso sinistro, o che la persona purificata non abbia una mano sinistra…» Rumata girò attorno alla scrivania, mise tutte e due le mani nella cassetta dei braccialetti, ne prese più che poteva e se ne andò. «Ehi, ehi» gridava l’ufficiale, sempre con la stessa voce monotona. «Il motivo…» «In nome del Signore» disse Rumata con enfasi significativa, senza voltarsi. L’ufficiale e Frate Tibak si alzarono subito in piedi e risposero confusi: «Nel Suo nome!» La gente in coda guardava ammirata e invidiosa Rumata che si allontanava. Rumata uscì dalla cancelleria e andò verso la Torre della Gioia, facendo tintinnare allegramente i cerchietti di ferro. Si accorse di aver preso nove braccialetti, ma che al polso sinistro ce ne stavano solo cinque, così infilò gli altri quattro al destro. «È così che il vescovo di Arkanar voleva sbarazzarsi di me» pensò. «Be’, ha sbagliato persona!» I braccialetti di metallo tintinnavano a ogni passo, e Rumata teneva in mano un pezzo di carta dall’aria importante, il modulo 6/17/11, decorato da bolli multicolori. I monaci che camminavano o cavalcavano per strada lo evitavano accuratamente. Ogni tanto scorgeva tra la folla la sua spia e guardia del corpo, che si teneva sempre a rispettosa distanza. Rumata arrivò al cancello della Torre della Gioia. Fece tintinnare minacciosamente le spade davanti alla guardia che allungava il collo con curiosità, ma che si ritirò subito. Rumata attraversò il cortile e scese, nella semioscurità interrotta solo dal bagliore di rozze lampade a olio, gli scalini consunti e scivolosi. Era l’entrata del sancta sanctorum dell’ex ministro della Sicurezza Interna, la prigione reale con le sale di tortura. Ogni dieci passi, lungo il corridoio a volta, c’era una torcia puzzolente fissata a un sostegno arrugginito. Sotto ogni torcia c’era una nicchia simile a una caverna, che terminava in una porta nera con una finestrella provvista di sbarre. Era l’entrata delle celle. All’esterno le porte erano sprangate da pesanti chiavistelli. I corridoi brulicavano di gente che si urtava, correva avanti e indietro, gridava, cercava di dare ordini. I chiavistelli sferragliavano e sbattevano, le porte venivano aperte e chiuse, qualcuno veniva picchiato e urlava di dolore, un altro cercava disperatamente di aggrapparsi alle grate mentre lo trascinavano via, un prigioniero veniva spinto in una cella già sovraffollata, e un altro condannato, che alcuni uomini cercavano di trascinare fuori da una cella, si stringeva a un compagno gridando. I visi dei monaci erano pieni di zelo. Andavano tutti di fretta, tutti svolgevano mansioni importantissime per lo Stato. Rumata decise di scoprire che cosa stava succedendo là dentro. Si aggirò indisturbato in vari corridoi, scendendo sempre di più. I piani inferiori erano un po’ più calmi. Basandosi sulle indiscrezioni che aveva captato, era lì che venivano esaminati i diplomati alla Scuola dei Patrioti. Vestiti solo di pantaloni di cuoio, i ragazzi stavano in piedi davanti alle porte delle sale di tortura, sfogliavano vecchi manuali unti e ogni tanto andavano a bere un po’ d’acqua da una tinozza servendosi di una coppa legata al muro con una catena. Dalle stanze provenivano grida orribili, il rumore delle frustate e l’odore inconfondibile della carne bruciata. E i loro discorsi! Oh, quei discorsi! «Sai, la ruota ha una vite in cima, che si era consumata ed era caduta. È colpa mia, dico io? Mi ha fatto frustare per questo. ‘Schifoso, porco’ mi ha detto. ‘Imbecille, vai a farti dare cinque frustate sul sedere nudo. Poi torna qui’«. «Se solo riuscissimo a scoprire chi è che dà le frustate. Forse è uno di noi, uno studente. Potremmo alleggerirgli la mano, basterebbe qualche moneta di rame…» «Quando si ha sottomano un grassone, le spine non gli lasciano segni nella carne. La cosa migliore è prendere un paio di chiodi incandescenti e spingergli via un po’ di lardo…» «Sì, ma le catene di Dio servono solo per torturare le gambe, e i guanti del martire, quelli con i chiodi, servono per le mani, ti ricordi?» «Fratelli, sono quasi scoppiato, ho riso tanto! Entro per dare un’occhiata, e chi ti vedo? Fika il rosso, il macellaio del mio quartiere che mi tirava sempre le orecchie quando era ubriaco. Adesso tocca a me, mi sono detto, aspetta un po’…» «E Pekor, quello con le labbra grosse, è stato portato via dai monaci stamattina. Non è ancora tornato. Non si è visto neanche all’esame». «Dovevo lavorare al tritacarne, ma per caso ho preso l’uomo di fianco. Be’, si sono rotte un po’ di costole, e allora? Avreste dovuto vedere Padre Kin! Mi prende per i capelli e mi dà dei calci con gli scarponi. Ragazzi, che mira! Ho visto le stelle! ‘Che ti salta in mente?’ mi grida. ‘Stai danneggiando le proprietà!’««Date un’occhiata, amici» pensò Rumata, girando lentamente la testa per inquadrare tutta la scena. «Venite a vedere. Qui non si tratta solo di teorie: sulla Terra non si è mai visto niente di simile. Guardate, ascoltate, registrate tutto! E imparate ad apprezzare e ad amare la nostra vita sulla Terra, maledizione, inchinatevi per onorare la memoria di quelli che sono vissuti in epoche come questa! Osservate bene questi visi ripugnanti, giovani, ottusi, indifferenti, abituati alle peggiori bestialità; ma non inorgoglitevi. I nostri antenati, ai loro tempi, non erano affatto migliori». Ormai gli studenti si erano accorti di lui. Una ventina di occhi di tutti i colori lo osservavano. «Ehi, guarda, il signore si degna di venirci a trovare. La pappagorgia è un po’ pallida, eh, messere?» «Ma come! Credevo che li avessimo sistemati tutti!» «Dicono che in questi casi gli mettono davanti dell’acqua, ma gli lasciano una catena troppo corta per riuscire a raggiungerla…» «Perché è venuto a ficcare il naso qui?» «Mi piacerebbe mettergli le mani addosso. Scommetto che risponderebbe a tutto, confesserebbe ogni cosa…» «Basta! Parlate più piano! È capace di sguainare la spada senza preavviso, state attenti… Guardate quanti braccialetti ha, e quel pezzo di carta!» «Non mi piace come ci sta guardando. Andiamocene, ragazzi. Non voglio immischiarmi con questi individui!» Finalmente si allontanarono, nascondendosi in qualche angolo buio. Solo i lampi degli occhi sospettosi ogni tanto ne rivelavano la presenza. «Meglio essersene sbarazzati» si disse Rumata. «Non mi seccheranno più». Stava per fermare uno dei monaci che si affrettavano lungo il corridoio, quando vide in un angolo altri tre monaci che sembravano meno di fretta e si concentravano con calma sulla loro occupazione. Stavano bastonando un boia, probabilmente colpevole di qualche insubordinazione. Rumata si avvicinò. «In nome del Signore» disse, facendo tintinnare i braccialetti. I monaci abbassarono i bastoni e lo osservarono. «Nel Suo nome» disse il più alto dei tre. «Portatemi dal supervisore di sezione!» gridò Rumata. I monaci si scambiarono degli sguardi veloci. Intanto, il boia si rannicchiò dietro una tinozza. «Di cosa avete bisogno?» chiese il monaco più alto. Senza parlare, Rumata gli mise il documento sotto il naso. «Aha. Bene. Al momento il supervisore di questa sezione sono io». «Benissimo» disse Rumata, arrotolando il foglio. «Io sono Don Rumata. Sua Magnificenza mi ha fatto dono del dottor Budach. Fatelo portare qui!» «Budach?» chiese il monaco, aggrottando la fronte. «E chi sarebbe?» Mise la mano sotto il cappuccio e si grattò la testa. «Budach il sovversivo?» «No, no» disse un altro. «Il sovversivo si chiama Rudach. È stato rilasciato ieri notte. Padre Kin in persona gli ha tolto le catene e lo ha portato fuori. Ma…» «Sciocchezze, sciocchezze!» sbottò Rumata, battendo il foglio arrotolato sulla coscia. «Budach è quello che ha avvelenato il Re!» «Ahhh!» esclamò il supervisore. «Ho capito. Probabilmente è già nelle segrete. Frate Pacca, andate a vedere al numero 12». Si rivolse ancora a Rumata: «Così voi vorreste portarlo fuori di qui?» «Certo. Adesso appartiene a me». «Va bene, Vostro Onore. Posso avere il foglio? Devo registrare tutto con esattezza». Rumata gli diede il modulo. Il supervisore lo esaminò da tutte e due le parti, con speciale attenzione per il sigillo, e poi disse compiaciuto: «Ecco un bel documento! Scusate, signore, potreste spostarvi un attimo e aspettare che finiamo questo lavoretto?… Ma dov’è andato il boia?» I monaci cercarono il boia, che a quanto pareva aveva trattato i prigionieri troppo delicatamente per i gusti del nuovo padrone. Rumata si allontanò. I monaci trovarono il boia, lo tirarono fuori dal nascondiglio, lo fecero stendere sul pavimento e ricominciarono l’opera senza dimostrare passione o crudeltà particolare. Dopo cinque minuti riapparve il monaco che era stato mandato a prendere il dottor Budach. L’uomo sbucò da una curva del corridoio tirando una corda legata al collo di un vecchio emaciato, con i capelli grigi, vestito di scuro. «Ecco il suo uomo! Vecchio Budach!» gridò allegramente il monaco da lontano. «Non era stato ancora gettato nelle segrete. È vivo e vegeto! Solo un po’ debole; probabilmente è un po’ che non mangia». Rumata andò verso di loro, strappò la corda di mano al monaco e la tolse dal collo del vecchio. «Siete Budach di Irukan?» «Sì». «Io sono Rumata. Mi segua e cerchi di starmi dietro!» Rumata si rivolse ai monaci: «In nome del Signore!» disse. Il supervisore si irrigidì, lasciò cadere il bastone e rispose, ansimando: «Nel Suo nome!» Rumata guardò Budach. Vide che il vecchio si appoggiava al muro e non si reggeva quasi in piedi. «Ho la nausea e sono debolissimo» disse con un sorriso stanco. «Per favore mi scusi, signore!» Rumata lo prese per un braccio e lo sorresse per tutto il corridoio. Appena furono fuori dalla portata dei monaci si fermò e prese una pillola di Sporamina da una fialetta. La diede a Budach, che gli lanciò uno sguardo interrogativo. «La inghiotta» disse Rumata. «Si sentirà subito meglio». Budach era ancora appoggiato al muro. Prese la pillola dalle mani di Rumata, l’esaminò accuratamente, l’annusò, aggrottò le sopracciglia pelose, poi si mise la pillola sulla lingua e l’assaggiò cautamente. «Inghiotta, inghiotta» disse Rumata sorridendo. Budach eseguì. «Mmmm» disse. «E pensare che credevo di sapere tutto di medicina». Tacque di nuovo, osservando i cambiamenti che avvenivano nel suo corpo. «Interessante! Milza essiccata della scrofa selvaggia Y? No, impossibile, non sento sapore di putrefazione». «Andiamo» disse Rumata. Attraversarono i corridoi, salirono alcune scale, girarono in un altro passaggio. All’improvviso Rumata si fermò. Un ruggito selvaggio e familiare riempiva le volte della prigione. Rimbombava da una delle celle, maledicendo Dio e il mondo. Era la voce tonante del suo caro amico, il barone Pampa, Don Bau de Suruga de Gatta di Arkanar. Con voce stentorea bestemmiava Dio e tutti i santi, Don Reba, il Sacro Ordine e tutti gli altri. «Cosi anche il barone è finito nelle loro grinfie» pensò tristemente Rumata. «Mi ero completamente dimenticato di lui. Lui non si sarebbe dimenticato di me…» Si tolse velocemente due braccialetti dal polso, li infilò a quello del dottor Budach e disse: «Ora salga di sopra, ma resti dentro l’edificio. Mi aspetti in qualche angolo nascosto. Se qualcuno la infastidisce gli mostri questi cerchietti di ferro e la lascerà in pace». Il barone Pampa ruggiva e mugghiava come una rompighiaccio a propulsione atomica attraverso la nebbia polare. Sotto le volte risuonava un’eco tonante. La gente che passava nel corridoio si irrigidiva e si fermava ad ascoltare a bocca aperta. Molti si passavano velocemente i pollici sul viso per scacciare gli spiriti maligni. Rumata scese di corsa due rampe di scale, spingendo da parte i monaci che gli ostacolavano il passaggio. Con le due spade si fece largo tra gli studenti della Scuola dei Patrioti e aprì con un calcio la porta della cella. La stanza tremava per la voce tonante del barone. La luce fluttuante delle torce rivelava uno spettacolo strano. Il suo amico Pampa, quella montagna d’uomo, era stato appeso per i piedi a testa in giù, completamente nudo. Il viso gli era diventato nero-bluastro, congestionato di sangue. A un tavolino dalle gambe contorte sedeva un ufficiale gobbo che si tappava le orecchie con le mani; un aguzzino sudato, che assomigliava chissà perché a un dentista, si affaccendava ai suoi strumenti dentro un catino di ferro. Rumata chiuse la porta, gli si avvicinò da dietro e lo colpì in testa con l’elsa della spada. L’uomo fece un giro su se stesso, alzò le mani, perse l’equilibrio e cadde all’indietro sul catino. Rumata sguainò la seconda spada e tagliò in due il tavolino dell’ufficiale. L’aguzzino restò seduto nel catino, in preda al singhiozzo, mentre l’ufficiale correva a nascondersi carponi in un angolo. Rumata si avvicinò al barone e cercò di sciogliere le catene con cui era stato legato al muro. Al secondo tentativo riuscì a staccarle, poi aiutò l’amico a rimettersi in piedi. Il barone smise subito di ringhiare, si irrigidì in un suo atteggiamento particolare, e tirando le corde si liberò le mani. «Non ci posso credere» gridò, roteando gli occhi iniettati di sangue. «Sei tu, mio nobile amico! Ti ho trovato, infine!» «Sì, amico mio, sono qui! Ma adesso andiamocene. Questo non è posto per te!» «Birra! Da qualche parte ho visto della birra». Il barone si aggirò nella cella, trascinandosi dietro i resti delle catene, senza smettere di ruggire e di far rumore. «Ti ho cercato per tutta la notte! E mi hanno detto che eri stato arrestato, maledizione, così ho preso a pugni un sacco di gente e poi mi hanno convinto che ti avrei trovato qui dentro. E in effetti alla fine salta fuori che è così». Si avvicinò all’aguzzino e lo spinse da una parte con un movimento del braccio, come avesse voluto solo spolverare qualcosa. Dietro al punto dove si trovava il catino apparve un piccolo barile. Il barone lo sfondò con un pugno, gettò indietro la testa, spalancò la bocca e si versò il contenuto in gola. Un torrente di birra gli gorgogliò nelle fauci. «Che tipo» pensò Rumata, osservando contento il barone. «Sembra un bue, un toro senza cervello, eppure mi ha cercato, mi voleva salvare e probabilmente è finito qui dentro a causa mia… Tutto questo spontaneamente. Grazie a Dio ci sono ancora degli esseri umani su questo mondo, marcio com’è. Per fortuna che alla fine tutto è andato per il meglio!» Il barone aveva prosciugato il barile. Lo gettò nell’angolo dove l’ufficiale stava battendo i denti. Si sentì squittire. «Così va meglio» disse il barone, asciugandosi la barba con il dorso della mano. «Adesso sono pronto. Fa niente anche se sono nudo?» Rumata si guardò intorno, si avvicinò all’aguzzino e gli tolse il grembiule di cuoio. «Per il momento prendi questo» gli disse. «Giusto» disse il barone, infilandoselo. «Sarebbe davvero sconveniente comparire nudo davanti alla baronessa». Uscirono dalla cella. Nessuno aveva il coraggio di opporsi, e il corridoio si svuotò per almeno venti passi. «Li ucciderò tutti!» gridò il barone. «Mi hanno occupato il castello, hanno ordinato a qualcuno di prendervi residenza in nome di Padre Arima. Non so di chi sia padre, ma ti giuro che i suoi figli saranno orfani presto! Che il diavolo li porti, amico mio, non ti sembra che questi soffitti siano maledettamente bassi? Mi sono già scorticato il cranio…» Finalmente uscirono dalla Torre, Per un attimo la guardia del corpo-spia divenne visibile, ma sparì subito tra la folla. Rumata fece cenno a Budach di seguirlo. La folla davanti al cancello si divise, come se avessero cercato di fenderla con una spada. Sentirono urlare che era fuggito un importante criminale politico, si videro indicare a dito e delle voci ringhiarono: «Guardate quel diavolo nudo, il famoso boia di Estor!» Il barone andò in mezzo alla piazza, si fermò e dovette tenere gli occhi semichiusi a causa del sole. Ora la cosa più importante era la velocità. Rumata valutò in un attimo la situazione. «Da qualche parte c’era il mio cavallo, qui!» disse il barone. «Ehi, voi, laggiù, il mio cavallo!» Nel recinto dei cavalli dell’Ordine nacque un tumulto. «Non quello là!» gridò il barone. «Quell’altro, lo stallone grigio pezzato!» «In nome del Signore!» urlò Rumata e si aggiustò il cerchietto sulla fronte. Un monaco spaventato dal mantello sporco portò al barone il suo cavallo. «Dagli qualcosa, Don Rumata» disse il barone, issandosi in sella con difficoltà. «Ferma, ferma!» gridavano dalla Torre. Alcuni monaci arrivarono di corsa, brandendo i randelli. Rumata tese al barone una delle spade. «Forza, barone, fai presto!» gli disse. «Sì. Devo sbrigarmi. Quell’Arima mi sta prosciugando la cantina. Ti aspetto al castello domani o dopodomani, amico mio. Messaggi per la baronessa?» «Baciale la mano per me» disse Rumata. I monaci ormai erano quasi su di loro. «Ma adesso vai, presto!» «Sei fuori pericolo, amico mio?» La voce del barone tradiva la preoccupazione per la sicurezza dell’amico. «Sì, sì, maledizione! Muoviti!» Il barone si gettò al galoppo contro la folla di monaci. Uno di essi cadde a terra, un altro rotolò lontano, si sentì gemere, si alzò un nuvolone di polvere, gli zoccoli del cavallo stridettero sul selciato e il barone sparì dalla vista. Rumata guardava in fondo a una stradina dove si erano rifugiati quelli che erano stati feriti nel tumulto. Improvvisamente sentì una voce insistente e insinuante. «Ma, mio nobile signore, non le sembra di essersi preso delle libertà illecite?» Rumata si voltò e si trovò di fronte il sorriso affettato di Don Reba. «Illecite?» disse Rumata. «Nel mio vocabolario questa parola non esiste». Improvvisamente si ricordò di Don Sera. «E comunque, non vedo perché due gentiluomini non dovrebbero aiutarsi a vicenda in caso di difficoltà». Un gruppo di monaci ansimanti li oltrepassò, con le alabarde in mano, all’inseguimento del barone Pampa. Il viso di Don Reba mutò espressione. «Va bene, allora» disse. «Dimentichiamo tutto. Oh, ma non si tratta qui dell’eccellentissimo dottor Budach? È in splendida forma, dottore. Penso che dovrei ispezionare la mia prigione. I criminali politici, inclusi i prigionieri liberati, non devono mai andarsene a piedi. Dovrebbero essere trasportati». Il dottor Budach tentò di gettarsi ciecamente contro Don Reba. Rumata si mise subito tra i due. «A proposito, Don Reba» disse. «Che mi dice di Padre Arima?» «Padre Arima?» Don Reba aggrottò le sopracciglia. «Un guerriero straordinario. Occupa una posizione molto alta nel mio episcopato. Che cosa significa questa domanda?» «Come servo fedele di Vostra Magnificenza» disse Rumata con evidente piacere «mi affretto a informarla che può considerare vacante la sua alta posizione». «Come mai?» Rumata guardò in fondo al viottolo dove la polvere giallastra non si era ancora posata. Anche Don Reba guardò da quella parte. Sul suo viso apparve un’espressione preoccupata. Era ormai pomeriggio inoltrato quando Kyra chiese al suo signore e al suo distinto ospite di accomodarsi a tavola. Ora che il dottor Budach aveva fatto un bagno, si era rasato e aveva indossato degli abiti puliti, aveva un aspetto piacevole e maestoso. I suoi movimenti erano decisi e pieni di dignità, gli occhi grigi e intelligenti guardavano da sotto le sopracciglia folte in modo benevolo e quasi condiscendente. Per prima cosa si scusò con Rumata del suo comportamento impulsivo verso Don Reba durante il loro incontro sulla piazza. «La prego di capirmi» disse. «È una persona orribile, un mostro capitato su questo mondo per volere divino. Sono un medico, ma non mi vergogno di ammettere che lo ucciderei se ne avessi l’opportunità. Mi è giunta notizia che il Re è stato avvelenato. Ora capisco come è successo». Rumata ascoltò attentamente. «Quel Reba è venuto nella mia cella e mi ha chiesto di preparare un veleno che facesse effetto qualche ora più tardi. Naturalmente, ho rifiutato. Ha minacciato di farmi torturare, e gli ho riso in faccia. Per tutta risposta ha chiamato i suoi aguzzini e ha detto loro di portargli una decina di bambini sotto i dieci anni. Li ha allineati davanti a me, ha aperto la mia borsa delle medicine e ha detto che avrebbe sperimentato i miei farmaci uno dopo l’altro su quelle povere cavie umane, fino a trovare quello giusto. Ed è stato così che il Re è stato avvelenato, Don Rumata». Le labbra di Budach cominciarono a tremare, ma ritrovò subito la calma. Rumata annuì e si voltò, per non imbarazzare l’ospite. «Adesso finalmente capisco» pensò. «Ora capisco tutto. Il Re non avrebbe mai accettato nulla dalle mani dei suoi ministri, neppure un sottaceto. Così il maledetto ha pensato di scovare un ciarlatano di terz’ordine promettendogli di farlo diventare medico personale del Re come ricompensa per aver curato le sue gambe. Adesso è chiaro perché Don Reba era così trionfante quando l’ho provocato nella camera reale: gli ho fornito il destro per affibbiare al Re un falso Budach. La responsabilità ricadeva tutta sulle spalle di Rumata di Estor, cospiratore e spia di Irukan. Siamo noi i veri novellini. Siamo come dei cuccioli sciocchi e ingenui. All’Istituto dovrebbero introdurre un corso di intrighi feudali. E anche uno per l’acquisizione delle capacità necessarie alla cattura dei Reba dell’universo, grandi e piccoli». Il dottor Budach era chiaramente affamatissimo. Ciononostante, rifiutò cortesemente ma decisamente tutti i piatti di carne e assaggiò solo le insalate, la pasta e i dessert. Bevve anche un bicchiere di vino di Estor e i suoi occhi ricominciarono a scintillare. Sulle sue guance si diffuse un colorito roseo. Rumata non riusciva a inghiottire neppure un boccone. Aveva ancora davanti agli occhi le torce fumanti; sentiva ancora l’odore della carne bruciata. Aveva un nodo alla gola. Così aspettò che il dottor Budach finisse di mangiare a sazietà, mentre lui, Rumata, appoggiato al davanzale, conversava gentilmente, evitando di disturbare l’ospite che si godeva il pranzo. Lentamente, in città riprendeva la vita. Nelle strade tornava la gente, si sentivano voci sempre più alte, accompagnate dal battere dei martelli e dallo scricchiolio del legno: stavano abbattendo gli idoli di legno dai muri e dai tetti. Un negoziante calvo e grasso spingeva davanti a sé un carretto carico di barili di birra, per andare a venderla in piazza a due centesimi il boccale. La gente camminava sottobraccio, dandosi pacche amichevoli sulla schiena. Sotto il portale, dall’altra parte della strada, vide la sua spia e guardia del corpo che parlava con una donna magra. Sotto la finestra passavano dei carri pieni di roba. Sul momento Rumata non capì che cosa portassero; poi vide mani e piedi bluastri che sporgevano da sotto i mucchi di spazzatura. Si allontanò in fretta dalla finestra. «La natura umana» disse Budach, masticando con gusto «è caratterizzata dall’abilità di adattarsi a tutto. Al mondo non esiste niente a cui l’uomo non possa adattarsi. I cani, i cavalli, non possiedono quest’abilità. Presumibilmente, quando Dio ha creato l’uomo ha considerato le sofferenze a cui sarebbe stato sottoposto nel mondo, e quindi l’ha dotato di una grandissima capacità di sopportazione. Naturalmente è difficile dire se sia un bene o un male. Se l’uomo non fosse stato dotato di questo potenziale, allora tutti i buoni sarebbero morti da un pezzo, e sarebbero sopravvissuti solo i malvagi e i senza cuore. D’altro canto, la tolleranza e l’adattabilità rendono l’uomo una bestia ottusa, distinguibile dagli animali solo per la struttura fisica, inferiore perfino alle bestie più infime, come capacità di difendersi. E ogni giorno crescono gli esempi di orrore, di malvagità e di brutalità…» Rumata guardò Kyra. Era seduta di fronte a Budach e ascoltava attentamente le sue parole, con la guancia appoggiata sulla mano. I suoi occhi erano pieni di dolore: si capiva quanto stava soffrendo per l’umanità. «Probabilmente avete ragione, dottore» disse Rumata. «Ma prendete me, per esempio. Sono solo un nobile qualunque di alto lignaggio». Budach corrugò l’alta fronte e spalancò gli occhi stupito e divertito. «Amo le persone colte più di qualunque altra cosa: ammiro la loro nobiltà di spirito. Ma d’altra parte non riesco proprio a capire perché voi, che siete uomini di scienza e quindi i soli rappresentanti della vita intellettuale e della saggezza, restiate così passivi. Perché vi arrendete al disprezzo senza lottare, perché lasciate che vi gettino in prigione, perché accettate il vostro destino e vi fate bruciare sui roghi? Perché separate la vostra ragion d’essere, la ricerca della conoscenza, dalle necessità pratiche della vita, la lotta contro il male?» Budach spinse indietro il piatto vuoto. «Fate strane domande, Don Rumata. Stranamente, l’onorevole Don Hug, il ciambellano del duca, mi ha chiesto le stesse cose. Per caso vi conoscete? Sì, lo pensavo… Certo, la lotta contro il male! Ma che cosa si intende con questa parola? Dopotutto, ognuno è libero di interpretare il concetto di male a suo modo. Per noi studiosi il male sta nell’ignoranza. La chiesa invece insegna che l’ignoranza è gioia, e che tutto il male viene dalla conoscenza. Per il contadino il male sta nelle tasse e nella siccità. Per il mercante di grano, però, la siccità è molto vantaggiosa. Gli schiavi vedono il male nella persona di un padrone ubriaco e senza cuore, mentre gli artigiani lo vedono personificato in un usuraio avaro. Ditemi, allora, dov’è il male che dovremmo combattere, Don Rumata?» Lanciò all’interlocutore uno sguardo triste. «Il male non può essere estirpato. Nessuno è in grado di impedirne la crescita, in questo mondo. L’individuo può migliorare la sua condizione, forse, ma solo a spese degli altri. E ci saranno sempre re che si distingueranno l’uno dall’altro solo per il grado di crudeltà, ci saranno sempre baroni crudeli e debosciati, come ci sarà sempre la plebe stupida, la massa ignorante che ama i suoi oppressori e, paradossalmente, odia i suoi liberatori. Tutto questo si può spiegare con lo strano fenomeno secondo cui i servi e gli schiavi capiscono i loro padroni, anche i più crudeli, mentre non capiscono coloro che vorrebbero liberarli. Perché ogni schiavo sa immaginarsi al posto del proprio padrone, ma è raro quello che sa vedersi al posto del proprio liberatore. Questi sono gli esseri umani, Don Rumata. Così è il nostro mondo». «Il mondo è soggetto a continui cambiamenti, dottor Budach. Sappiamo che c’è stata un’epoca in cui non c’erano re…» «Il mondo non può continuare a cambiare per sempre, perché niente è eterno, neppure il cambiamento… Non conosciamo le leggi della perfezione completa, ma questa prima o poi sarà raggiunta. Per esempio, considerate la struttura della nostra società. Com’è piacevole all’occhio dell’osservatore questo sistema dalla perfezione geometrica! In basso ci sono i contadini e gli artigiani, poi i nobili, poi il clero e infine il Re. Come tutto è stato calcolato meticolosamente! Che stabilità, che simmetria, che ordine armonioso! Quale cambiamento potrebbe avvenire in questa gemma tagliata dal nostro divino gioielliere? In questo mondo non c’è struttura più perfetta della piramide, come potrà confermarvi qualunque bravo architetto». Alzò un dito, sottolineando ogni osservazione con un leggero movimento. «Quando da un sacco esce del grano, non si dispone uniformemente in piano, ma forma una cosiddetta piramide conica. Ogni granellino aderisce all’altro cercando di non cadere per terra. Così succede anche all’umanità. Nel loro tentativo di formare un’entità di qualche tipo, gli uomini devono aderire l’uno all’altro, e formano inevitabilmente una piramide». «Davvero considera questo come il migliore dei mondi possibili?» chiese Rumata stupito. «Dopo aver incontrato Don Reba, dopo essere stato in prigione?» «Certo che no, mio giovane amico! In questo mondo ci sono molte cose che non mi piacciono, e senza dubbio vorrei vederle cambiare. Ma cosa dovremmo fare? Agli occhi del Potere Supremo la perfezione presenta un aspetto diverso che ai miei. Che senso avrebbe se un albero si lamentasse di essere radicato in un punto, mentre sarebbe felicissimo di potersi muovere per potere sfuggire all’ascia del taglialegna?» «E se fosse possibile modificare le decisioni del Potere Supremo?» «Solo il Potere Supremo può farlo». «Ma immagini di avere l’autorità divina…» Budach rise. «Se potessi immaginare di essere Dio, lo diventerei!» «Va bene, immagini di avere l’opportunità di dare a Dio qualche consiglio». «Lei ha un’immaginazione molto vivace. Sarebbe meraviglioso. Conosce le Sacre Scritture? Magnifico! Sarei felice di conversare con lei». «Mi lusinga. Comunque, che consiglio darebbe all’Onnipotente? Cosa dovrebbe fare perché lei possa dire: adesso il mondo è davvero buono e bello?» Budach ebbe un sorriso di approvazione, si appoggiò comodamente allo schienale della poltrona e intrecciò le mani sopra lo stomaco. Piena d’interesse, Kyra osservò il suo viso. «Va bene» disse Budach. «Se proprio ci tiene. Direi all’Onnipotente: ‘Creatore, non conosco i tuoi piani, forse non è affatto tua intenzione rendere buona e felice l’umanità. Comunque ti supplico, fa’ che tutti gli uomini abbiano pane, carne e vino a sufficienza! Per te sarebbe così facile! Da’ loro un riparo, dei vestiti, fa’ scomparire dalla faccia della Terra la fame e il bisogno e tutto quello che separa un uomo dall’altro’«. «Tutto qui?» «Le sembra poco?» Rumata scosse lentamente la testa. «Dio le risponderebbe: ‘Questa non sarebbe una benedizione per l’umanità. Perché i forti porterebbero via ai deboli quello che ho dato loro, e i deboli tornerebbero poveri come prima’«. «Allora pregherei Dio di proteggere i deboli. Gli direi di illuminare i monarchi crudeli». «La crudeltà è una forza difensiva. Se i monarchi si liberassero della loro crudeltà, perderebbero il potere. E altri uomini crudeli prenderebbero il loro posto». Il viso affabile di Budach divenne improvvisamente cupo. «Allora punisca gli uomini crudeli» disse con foga «e li allontani dalla via del male, così che i forti non possano sopraffare i loro fratelli più deboli». «L’uomo nasce debole per natura. Diventa forte soltanto quando incontra qualcuno più debole di lui. E se i più crudeli tra i forti vengono puniti e allontanati dal loro posto, sono rimpiazzati da quelli relativamente più forti fra i deboli. E i nuovi forti diventeranno a loro volta crudeli. Questo significherebbe che alla fine tutti gli uomini dovrebbero essere puniti, cosa che non voglio». «Sei molto lungimirante, Signore Onnipotente. Perciò fa’ in modo che tutta l’umanità ottenga ciò che le serve, ed evita così che si rubi a vicenda ciò che le hai dato». «Neppure questa soluzione sarebbe una benedizione per l’umanità» sospirò Rumata. «Perché non ne trarrebbe nessun vantaggio. Perché se gli uomini ottenessero tutto dalla mia mano senza sforzo, dimenticherebbero cosa significa lavorare e faticare: perderebbero il gusto di vivere. Con il tempo diventerebbero animali domestici che io dovrei nutrire e vestire per l’eternità». «Non dare tutto subito!» disse Budach con eccitazione. «Da’ lentamente, gradualmente!» «Gradualmente, l’umanità otterrà comunque ciò di cui ha bisogno». Il sorriso di Budach si fece imbarazzato. «Adesso mi rendo conto che le cose non sono tanto semplici» disse. «Non avevo mai pensato seriamente a questo problema… Penso che abbiamo discusso tutte le possibilità. Comunque ne resta ancora una. Ordina all’umanità di amare sopra ogni cosa il lavoro e la conoscenza, che consideri il lavoro e la saggezza la sua unica ragione d’essere!» «Sì» pensò Rumata. «Abbiamo già tentato questi esperimenti. Ipno-induzione di massa, rimoralizzazione positiva, esposizione a radiazioni ipnotiche da satelliti equatoriali…» «Questa è un’alternativa più accettabile» disse. «Ma come potrei giustificarmi per aver privato l’umanità della sua storia? Che senso ha sostituire un tipo d’uomo con un altro? Non significherebbe annientare quest’umanità e crearne al suo posto un’altra?» Budach aggrottò la fronte e restò zitto, assorto nei propri pensieri. Dalla strada continuava a venire il cigolio triste dei carri. Improvvisamente, Budach disse: «Allora, Signore, annientaci e ricreaci di nuovo, creaci migliori questa volta, più perfetti. Oppure, meglio ancora, lasciaci come siamo, ma ordina che possiamo seguire la nostra strada!» «Il mio cuore è pieno di dolore» disse lentamente Rumata «ma questo non è in mio potere». E all’improvviso si accorse degli occhi di Kyra, fissi su di lui con grande intensità. Nel suo sguardo lesse la paura e la speranza. Capitolo IX Rumata accompagnò Budach in camera da letto perché si riposasse in previsione del lungo viaggio, poi andò nel suo studio. La Sporamina aveva esaurito il suo effetto e si sentiva esausto; le ferite ricominciavano a fargli male, e i polsi, che continuavano a bruciargli a causa delle corde, si stavano gonfiando. «Dovrei distendermi e dormire un po’«si disse. «Devo solo dormire un po’, e poi mettermi in contatto con Don Kondor. Dovrei anche comunicare con i Controlli e far loro riferire tutto al comando. Dobbiamo decidere cosa fare, adesso, sempre che ci resti qualcosa da fare. E come comportarci nel caso non ci sia niente da fare». Entrando nello studio vide un monaco nero seduto alla scrivania, con il cappuccio calato sugli occhi. Era chino in avanti e teneva le braccia nascoste nelle ampie maniche. «Che ci fa qui?» chiese Rumata, stanchissimo. «Chi l’ha fatta entrare?» «I miei rispetti, nobile Don Rumata» disse il monaco, tirando indietro il cappuccio. Rumata scosse piano la testa. «Che Dio mi fulmini!» disse. «Salute, mio buon Arata. Cosa l’ha spinta a venire qui? Cos’è successo?» «Il solito» rispose Arata. «L’esercito si è ribellato, gli uomini si stanno dividendo le terre e nessuno vuole andare a sud. Il Duca sta radunando i superstiti e non ci vorrà molto perché cominci a impiccare i miei contadini per i piedi lungo il confine con Estor. Tutto come al solito» ripeté. «Capisco» disse Rumata. Si gettò sul divano appoggiando la testa sulle braccia incrociate e osservò l’ospite. Vent’anni prima, quando Anton costruiva modellini con il suo montatore e giocava a Guglielmo Tell sulla Terra, l’uomo era conosciuto come Arata il Bello ed era una persona completamente diversa. A quel tempo Arata il Bello non aveva ancora l’orribile cicatrice sulla fronte. Se l’era procurata nell’ammutinamento dei marinai di Soan: tremila lavoratori nudi e schiavizzati raccolti da tutto il regno per lavorare ai moli di Soan e così abbrutiti da aver perso ogni volontà di sopravvivenza. Una notte erano usciti dalla zona del porto e avevano attaccato la città, lasciandosi dietro solo cadaveri e incendi. Alla fine erano stati accerchiati dalla fanteria imperiale corazzata. A quel tempo, naturalmente, Arata aveva ancora due occhi sani. Aveva perso il destro per la randellata di un barone, quando un esercito di ventimila contadini aveva deciso di invadere la capitale per stanare le bande di baroni e aveva incontrato invece la guardia imperiale, forte di cinquemila uomini, in campo aperto. Erano stati divisi in piccoli gruppi, circondati e massacrati dai ferri chiodati dei cammelli… A quel tempo Arata il Bello era ancora dritto come un pioppo. Gli era venuta la gobba (e con essa aveva cambiato soprannome) dopo la battaglia nel ducato di Uban, oltre oceano, quando, dopo sette anni di peste e siccità, quattrocentomila scheletri viventi avevano preso forche e bastoni, cacciato i nobili e assediato il Duca di Uban nel suo palazzo. Il Duca, la cui debole mente si era immediatamente vivacizzata grazie al terrore, si era dichiarato disposto a perdonare i suoi sottoposti, ad abbassare il prezzo delle bevande alcoliche e a promettere la libertà ai servi della gleba. Arata, vedendo che tutto era perduto, aveva implorato i ribelli di non inghiottire quell’esca traditrice; ma era stato catturato dagli Atamani, che pensavano che da un uomo buono non ci si doveva aspettare niente di buono. Lo avevano picchiato con verghe di ferro e gettato in un pozzo per lasciarvelo morire di una morte atroce. Quanto al pesante anello di ferro che ancora portava al polso destro, risaliva probabilmente al tempo in cui era chiamato il Bello. L’anello era stato forgiato in fondo a una catena attaccata al timone di una nave pirata, ma Arata aveva spezzato la catena, colpito alla tempia il capitano Ega il Grazioso, catturato prima la nave e poi l’intera flotta del pirata. Quindi aveva cercato di fondare una repubblica libera sull’oceano. L’impresa era finita in un bagno di sangue, perché a quel tempo Arata era un giovane che non aveva ancora imparato a odiare e che pensava che il dono della libertà bastasse a trasformare uno schiavo in una creatura divina. Era un ribelle di professione, un vendicatore per grazia di Dio, una figura che non si incontra spesso nel medioevo. Tuttavia l’evoluzione storica di tanto in tanto crea simili lucci, e li immette nei gorghi profondi della società perché incalzino le grasse carpe che dormono sognando nel fango degli abissi. Arata era la sola persona lì che Rumata non odiasse o compiangesse. E il terrestre, che aveva trascorso quasi cinque anni tra il sangue e il sudiciume, nei suoi sogni inquieti si vedeva come una specie di Arata. Aveva attraversato i tormenti più infernali e ne aveva ricevuto in cambio il privilegio di massacrare gli assassini, torturare gli aguzzini, tradire i traditori. «A volte mi sembra che siamo tutti impotenti» disse Arata. «Rimango sempre il capo degli ammutinati, e capisco che la mia forza si basa sulla mia straordinaria vitalità. Ma la forza non mi aiuta nella mia impotenza. Come per magia, le mie vittorie si tramutano in sconfitte. I miei alleati in battaglia diventano miei nemici, i più coraggiosi mi abbandonano, i più fedeli mi tradiscono o muoiono. E non mi resta nulla, solo le mani nude. Ma non si possono conquistare gli idoli d’oro dietro le mura delle fortezze, a mani nude…» «Come è arrivato ad Arkanar?» «Con i monaci». «Pazzo! È così facile riconoscerla». «Non ho detto in mezzo ai monaci. Della folla di ufficiali del Sacro Ordine, quasi la metà è fatta di giullari di Dio e di storpi come me. I deformi sono una vista piacevole per gli occhi di Dio». Guardò fisso Rumata e scoppiò a ridere. «Cosa intende fare, adesso?» chiese Rumata abbassando gli occhi. «Il solito. Conosco il Sacro Ordine. Prima della fine dell’anno il popolo di Arkanar si armerà e uscirà dalle sue tane, facendosi a pezzi con le asce. Lo guiderò, in modo che gli uomini non si scannino a vicenda, ma scannino solo quelli che lo meritano». «Le serve denaro?» «Sì, come al solito. E armi…» Tacque. Poi socchiuse gli occhi, dicendo: «Don Rumata, ricorda come sono rimasto deluso quando ho scoperto chi era lei in realtà? Odio i frati, e mi dà fastidio quando la loro rete di bugie risulta essere la verità. Ma sfortunatamente un povero ribelle è costretto ad approfittare di tutte le circostanze. I preti dicono che gli dèi hanno a loro disposizione i fulmini… Don Rumata, ho bisogno urgente di questi fulmini, per abbattere le mura delle fortezze». Rumata sospirò profondamente. Dopo il suo salvataggio miracoloso, Arata non aveva mai smesso di chiedere spiegazioni. Rumata una volta aveva anche cercato di parlargli di sé, gli aveva anche mostrato il Sole del suo pianeta nel cielo notturno: una stella minuscola, difficilmente individuabile. Ma il ribelle capiva una cosa sola: quei preti maledetti avevano ragione, oltre le mura del firmamento vivevano davvero gli dèi, dèi onniscienti e onnipotenti. E da quel momento in poi ogni conversazione con Rumata arrivava sempre alla stessa conclusione: Dio, poiché esisti, dammi la tua forza, perché è la cosa migliore che puoi fare per me. E ogni volta Rumata non rispondeva o cambiava discorso. «Don Rumata, perché non vuole aiutarci?» «Un momento solo, scusi: come ha fatto a entrare in casa mia?» «Questo non è molto importante. Solo io lo so. Ma non cerchi di sviarmi, Don Rumata. Perché non vuole darci i suoi poteri?» «Non parliamo di questo». «Sì, invece. Io non ho mai chiesto favori a nessuno. Lei è venuto da me spontaneamente. Oppure voleva solo divertirsi un po’?» «È difficile essere un dio» pensò Rumata. Pazientemente, gli rispose: «Non capisce la situazione. Ho cercato almeno venti volte di spiegarle che non sono un dio, e lei non vuole credermi. Perciò non capisce neppure perché non posso aiutarla con le mie armi». «Possiede davvero i fulmini?» «Non glieli posso dare». «Me lo sono sentito ripetere venti volte. Adesso voglio sapere: perché no?» «Lo ripeto: non può capire». «Allora cerchi di spiegarmelo un’altra volta». «Cosa intenderebbe fare con il fulmine?» «Voglio bruciare la razza dorata come un mucchio di cimici, fino all’ultimo, e i suoi maledetti discendenti fino alla dodicesima generazione. Cancellerò le sue fortezze dalla faccia della Terra. Brucerò gli eserciti e tutti quelli che difende e sostiene. Potete stare sicuro che il fulmine servirà per una causa, e quando solo gli schiavi liberati resteranno sulla Terra, e dappertutto regnerà la pace, vi restituirò il fulmine e non ve lo chiederò mai più». Arata tacque. Ansimava. Il suo viso era quasi violaceo per l’eccitazione. Sembrava quasi vedere di fronte a sé ducati e regni in preda alle fiamme, corpi bruciati tra le rovine fumanti, e gli enormi eserciti dei vincitori che ruggivano: Libertà! Libertà! «No» disse Rumata. «Non le darò il fulmine. Sarebbe un errore. Cerchi di capirmi, io vedo più lontano di lei». Arata chinò la testa. Rumata cominciò a far schioccare le falangi. «Le dirò solo uno dei motivi. Anche se a paragone del motivo principale questo è il più insignificante, lo capirà. Arata, lei trabocca di vitalità ma è destinato a morire come tutti. E se morisse, e il fulmine cadesse nelle mani sbagliate, meno pure delle vostre, il solo pensiero di quello che potrebbe succedere…» Per un po’ nessuno dei due parlò. Poi Rumata prese una bottiglia di vino estoriano e qualcosa da mangiare, mettendoli davanti all’ospite. Senza alzare la testa. Arata cominciò a mangiare silenziosamente dei pezzi di pane e a bere un po’ di vino. Rumata si sentiva spaccato in due. Sapeva di aver ragione, eppure quella consapevolezza lo umiliava davanti ad Arata. In qualche modo Arata lo superava, e non solo lui. Arata superava tutti quelli che erano venuti su quel pianeta senza essere stati chiamati, e osservavano impotenti la sua vita brulicante dalla cima di ipotesi distaccate e di valutazioni etiche aliene. Per la prima volta Rumata pensò: «Non si conquista niente senza perdere qualcosa. Siamo infinitamente più forti di Arata nel nostro regno di bontà, ma infinitamente più deboli di lui nel suo regno di malvagità». «Non avrebbe dovuto discendere dal cielo» disse improvvisamente Arata. «Se ne torni indietro. Qui ci fa solo del male!» «No, no» rispose Rumata. «Qui non facciamo del male a nessuno». «Sì, invece. Ci fate del male. Create in noi speranze inutili». «In chi, per esempio?» «In me. Lei, personalmente, ha indebolito la mia forza di volontà, Don Rumata. Una volta mi basavo solo su me stesso, adesso sono sempre consapevole della forza che sta dietro di me. Prima combattevo ogni battaglia come se fosse l’ultima, ma ora mi sono accorto che risparmio le forze per le altre battaglie, per quelle decisive, perché parteciperà anche lei. Lasci questo pianeta, Don Rumata, raggiunga i suoi cieli e non torni più. Oppure ci consegni i suoi fulmini, o almeno il suo uccello di ferro. O alla peggio, sguaini la spada e sia il nostro capo». L’uomo tacque di nuovo e prese un altro pezzo di pane. Rumata osservava le mani di Arata, soprattutto le sue dita. Due anni prima, Don Reba in persona gli aveva strappato tutte le unghie con uno strumento speciale. «Sai solo metà della storia» pensò Rumata. «Ti senti in pace, pensando di essere l’unico condannato al fallimento. Ancora non sai quanto la tua causa sia davvero disperata. Non sai che il tuo nemico non si trova oltre le file dei tuoi soldati, ma piuttosto dentro di loro. Forse ce la farai a sconfiggere il Sacro Ordine dei monaci neri, e l’onda della rivolta contadina ti porterà sul trono di Arkanar. Raderai al suolo i castelli dei feudatari e annegherai i baroni nella baia. Le masse ribelli ti copriranno di ogni onore, e sarai un signore buono e saggio… L’unico uomo buono e saggio in tutto il regno: nella tua bontà distribuirai terre ai tuoi commilitoni, ma che vantaggio daranno queste terre ai tuoi compagni, senza servi della gleba? E la ruota ricomincerà a girare in un’altra direzione. Sarai fortunato se morirai di morte naturale e non dovrai stare attento ai nuovi conti e baroni che sorgeranno dai ranghi dei tuoi collaboratori fedeli di ieri. Tutto questo è successo mille volte, amico mio, sulla Terra e anche qui». «Non mi dice niente?» chiese Arata. Spinse indietro il piatto e ripulì le briciole dalla scrivania con la manica. «Una volta avevo un amico» disse. «Forse ne ha sentito parlare: Waga Koleso. Abbiamo iniziato insieme. Poi lui è diventato un bandito, un principe delle tenebre. Non gli ho mai perdonato questo tradimento, e lui lo sa. Poi mi ha aiutato molto, per paura o per vanità, ma comunque non si è mai voluto pentire: aveva scopi tutti suoi. Due anni fa quest’uomo mi ha consegnato nelle mani di Don Reba…» Si guardò le dita deformi e strinse il pugno. «E stamattina l’ho catturato nel porto di Arkanar. Amicizie a mezzo cuore sono impossibili, nella nostra causa, perché un mezzo amico è già mezzo nemico». Si alzò in piedi e si tirò il cappuccio sugli occhi. «Troverò l’oro al solito posto, Don Rumata?» «Sì» rispose lui lentamente. «Al solito posto». «Adesso vado. Grazie, Don Rumata». Senza far rumore attraversò lo studio e scomparve dietro la porta. Giù, nell’entrata, i chiavistelli scattarono impercettibilmente. Capitolo X Il Covo dell’Ubriaco quel giorno era relativamente in ordine; il pavimento era stato spazzato e la tavola pulita per bene. Negli angoli c’erano mazzolini di lavanda e di erbe profumate. Padre Kabani era seduto dignitosamente su una panca. Era sobrio e tranquillo, e teneva in grembo le mani pulite. In attesa che Budach si addormentasse, parlavano del più e del meno. Budach, seduto a tavola accanto a Rumata, seguiva le chiacchiere spensierate dei signori con un sorriso indulgente. Ogni tanto sobbalzava all’improvviso, quando era sul punto di crollare. Le sue guance scavate erano imporporate dalla doppia dose di Tetraluminal che gli avevano messo di nascosto nel cibo. Il vecchio era eccitatissimo, e non riusciva a prender sonno. Don Hug, pieno d’impazienza, giocherellava con un ferro di cammello sotto il tavolo, mantenendo però un’espressione indifferente. Rumata faceva palline con la mollica e seguiva con interesse stanco Don Kondor, che si sforzava di nascondere la rabbia. Il Custode del Sigillo di Stato era nervosissimo per essere arrivato in ritardo alla conferenza notturna straordinaria dei venti agenti terrestri. La conferenza doveva discutere del colpo di stato ad Arkanar, e lui era il presidente. «Amici!» disse infine il dottor Budach con voce sonora. Si alzò in piedi e cadde subito sulle spalle di Rumata. Rumata lo circondò cautamente con un braccio. «Pronto?» chiese Don Kondor. «Non si sveglierà fino a domani mattina» disse Rumata. Prese Budach in braccio e lo portò sul pagliericcio di Padre Kabani. Padre Kabani, geloso, disse: «Vi preoccupate del dottore ma vi dimenticate del vecchio Kabani, signori!» «Ho solo un quarto d’ora» disse Don Kondor. «Mi bastano cinque minuti» rispose Rumata. Non riusciva quasi a nascondere la propria irritazione. «E ve ne ho già parlato così a lungo che basterà anche solo un minuto. In completo accordo con la teoria di base del feudalesimo» guardò furioso Don Kondor negli occhi «questo è solo un normale confronto tra borghesi e baroni» guardò Don Hug «che però si è sviluppato in un intrigo del Sacro Ordine, e alla fine ha fatto di Arkanar una roccaforte dell’aggressione feudale-assolutista. Siamo seduti qui e ci spremiamo le meningi cercando di accomunare la figura complicata, contraddittoria ed enigmatica dell’Aquila Illuminata, Don Reba, a quella di personalità storiche della stessa statura: Richelieu, Oliver Necker, Tokugawa e il Monaco. E la nostra aquila si rivela solo un piccolo mascalzone insignificante. Ha tradito e venduto tutto ciò su cui ha potuto mettere le mani, si è invischiato nella rete dei suoi stessi intrighi, è stato sopraffatto da un terrore mortale e poi ha cercato di salvarsi la pelle mettendosi nelle mani del Sacro Ordine. Aspettate solo sei mesi: a lui taglieranno la gola, ma l’Ordine resterà. Non oso immaginare con quali conseguenze per le regioni costiere e infine per il regno intero. Comunque un fatto è certo: il lavoro di vent’anni è andato perduto. Con ogni probabilità il dottor Budach è l’ultima persona che potrò salvare. Non salveremo nessun altro: è troppo tardi. Questo è tutto quello che ho da dire». Don Hug spezzò in due il ferro e lo gettò in un angolo. «È davvero un problema, questo è certo» disse. «Ma forse la situazione non è così nera come tu la vedi, Anton». Rumata lo guardò per un momento. «Avreste dovuto rimuovere Don Reba» disse improvvisamente Don Kondor. «In che senso ‘rimuovere’?» Il viso di Don Kondor si riempì di chiazze rosse. «In senso fisico!» rispose seccamente. Rumata si sedette. «Ucciderlo?» «Sì! Sì! Sì! Rapirlo! Eliminarlo! Schiacciarlo! Ucciderlo! Avrebbe dovuto agire, non stare a discutere del problema con due idioti che non avevano la minima idea di quello che stava succedendo». «Neanch’io l’avevo!» «Ma almeno se n’era accorto». Ci fu un silenzio imbarazzato. Poi Don Kondor ricominciò. Parlava piano, guardando il vuoto. «Una cosa sul tipo del massacro di Barkan?» «Sì, più o meno. Solo meglio organizzata». Don Kondor si morse le labbra. «Sarebbe troppo tardi, ora, per eliminarlo dalla scena?» «Completamente inutile» disse Rumata. «Primo, lo faranno fuori comunque, con o senza la nostra assistenza; secondo, non sarà neppure necessario. Mi segue come un cagnolino». «Che significa?» «Ha paura di me. Sente che dietro di me c’è una potenza misteriosa. Ha suggerito addirittura di collaborare». «Davvero?» borbottò Don Kondor. «Allora non ne vale la pena». Don Hug non resisteva più. «Compagni, che vi succede, parlate seriamente?» «Come?» «Insomma, tutto questo… rimuoverlo, farlo fuori… Che vi ha preso, siete impazziti?» «Il signore ci ha punti sul vivo!» osservò piano Rumata. Don Kondor pesò accuratamente le parole. «In casi eccezionali funzionano solo mezzi eccezionali!» Don Hug guardò prima l’uno e poi l’altro; le labbra gli tremavano. «Davvero… Davvero sapete in cosa vi state cacciando?» Non trovava le parole. «Capite a cosa potrebbe portare?» «Per favore, calmatevi» disse Don Kondor. «Non succederà niente. Ora basta. Cosa facciamo con il Sacro Ordine? Suggerisco di mettere dei posti di blocco nella zona intorno ad Arkanar. Qual è la vostra opinione, compagni? Veloci, per favore, ho fretta». «Opinioni non ne ho, non ancora» rispose Rumata. «E neppure Pashka. Dovremo parlare con i Controlli. Aspettiamo un po’. Ci incontreremo di nuovo fra una settimana e poi prenderemo una decisione». «D’accordo» disse Don Kondor, e si alzò in piedi. «Andiamo!» Rumata si prese Budach in spalla e lasciò la capanna. Don Kondor faceva luce con una lanterna. Salirono sull’elicottero e Rumata distese Budach sul sedile posteriore. Don Kondor s’impigliò con il piede nel mantello e cadde sul sedile del pilota con un tintinnare di spade. «Non potreste riportarmi subito a casa?» chiese Rumata. «Devo dormire un po’«. «Sì, sì» brontolò Don Kondor. «Sbrigatevi, eh!» «Torno subito» disse Rumata, e corse nella capanna. Don Hug era ancora seduto al tavolo, e guardava fisso davanti a sé stropicciandosi il mento. Padre Kabani, in piedi accanto a lui, disse: «Va sempre a finire così, amico mio. Ci si batte con le unghie e con i denti, si cerca di fare meglio che si può, ma alla fine va sempre male…» Rumata prese svelto le spade e il fez. «Dai, Pashka» disse a Don Hug. «Tirati su, siamo tutti sfiniti e irritabili». Don Hug scosse la testa con energia. «Anton, per piacere! Non dico niente di zio Sasha, è qui da tanto e non può più cambiare. Ma tu…» «Adesso voglio dormire, solo questo. Padre Kabani, per favore, porti i miei cavalli dal barone Pampa. Andrò a trovarlo fra pochi giorni». L’elicottero cominciò a rombare piano. Rumata salutò e corse fuori. La luce dei fari dell’elicottero rendeva spettrali i grovigli di felci giganti contro i tronchi candidi delle betulle. Rumata salì a bordo e chiuse lo sportello. Nella cabina c’era odore di ossigeno, di pannelli sintetici e d’acqua di colonia. Don Kondor fece decollare l’apparecchio e lo guidò con sicurezza indifferente lungo il sentiero. «Io non ci riuscirei, adesso» pensò Rumata, un po’ geloso. Sul sedile posteriore russava placidamente il dottor Budach. «Anton» disse Don Kondor. «Vorrei… Cioè, non… Non voglio essere invadente, e mi creda, non voglio interferire con le sue faccende personali…» «La ascolto» disse Rumata. Sapeva già dove l’altro voleva andare a parare. «Noi qui siamo in missione» disse Don Kondor. «Tutto quel che amiamo deve restare sulla Terra, oppure chiuso dentro di noi. In questo modo non ci può essere tolto o usato per ricattarci». «Vi state riferendo a Kyra?» «Sì, amico mio. Se metà di quello che mi hanno detto di Don Reba è vero, allora trattenerlo non sarà né facile, né privo di pericoli. Capite?» «Sì, capisco. Cercherò di escogitare qualcosa». Distesi l’uno accanto all’altra al buio, si tenevano per mano. In città ormai era tutto tranquillo. Si sentiva solo qualche cavallo che nitriva e scalpitava lontano. Ogni tanto Rumata cadeva in un sonno leggero, ma si svegliava subito. Allora Kyra tratteneva il respiro; nel sonno lui le stringeva forte la mano. «Sei molto, molto stanco» disse piano lei. «Vai a dormire, ti prego». «No, no, dimmi tutto, ti ascolto». «Continui ad addormentarti, caro». «Ti ascolto lo stesso. Hai ragione, sono stanchissimo, ma desidero ancora di più starti vicino e ascoltarti. Non dormirò, continua a raccontare, ti ascolto». Lei strofinò il naso contro la sua spalla, lo baciò sulla guancia e ricominciò a raccontare. Poco tempo prima il figlio del vicino di suo padre una sera era andato da lei. «Tuo padre è immobilizzato a letto. Lo hanno cacciato dall’ufficio e lo hanno battuto con le verghe come regalo d’addio. Non mangia quasi più, beve soltanto. È diventato pallido e cianotico, ha la tremarella». Il ragazzo le aveva anche detto che suo fratello era ricomparso, ferito ma felice e ubriaco, con un’uniforme nuova. Aveva dato un po’ di soldi a suo padre, aveva bevuto con lui e poi aveva minacciato di ucciderli tutti. Adesso era tenente, chissà dove, in un distaccamento speciale, aveva giurato fedeltà al Sacro Ordine e stava per essere fatto cavaliere. Suo padre la implorava di non tornare a casa, almeno per il momento. Suo fratello la minacciava continuamente di sconfessarla, perché lei, la strega con i capelli rossi, si era messa con un nobile… «Certamente non può più tornare a casa» pensò. «E non può assolutamente restare qui. Se dovesse capitarle qualcosa…» Aveva il presentimento che sarebbe successo. A quel pensiero gli corsero i brividi per la schiena. «Dormi?» chiese Kyra. Lui sobbalzò e aprì la mano con cui le aveva stretto spasmodicamente il mignolo. «No» rispose, mezzo addormentato. «Che altro hai fatto?» «Ho messo in ordine le tue stanze. C’era una confusione terribile. Ho trovato un libro, un’opera di Padre Gur. Parla di un nobile principe che ama una fanciulla bella ma primitiva della regione delle montagne. Lei è completamente selvaggia e lo ritiene un dio, ma lo ama con tutto il cuore. Poi li separano e lei muore di dolore». «È un bel libro» disse Rumata. «Ho anche pianto. Ho continuato a pensare che parlasse di noi, di te e di me». «Sì, parla di persone come noi. E in generale di tutti gli esseri umani che si amano. Solo che nessuno ci separerà». «Per lei la Terra sarebbe il luogo più sicuro» pensò Rumata. «Ma come farebbe a vivere senza di me? E come farei io, qui da solo? Potrei chiedere ad Anka di diventarti amica. Ma come farò io a restare qui senza di te? No, andremo sulla Terra, ma insieme! Guiderò io l’astronave, e tu starai seduta accanto a me, e ti spiegherò tutto. Così non avrai paura. Così amerai subito la Terra. Così non avrai mai nostalgia di casa. Questo pianeta non è affatto la tua casa. La tua casa ti ha respinta. E sei nata mille anni prima del tuo tempo. Tesoro mio, così buona, così cara, così generosa e pronta a sacrificarti… persone come te sono nate in tutte le epoche della storia sanguinosa dei nostri pianeti. Anime pure e candide, che non capiscono la crudeltà e non conoscono l’odio. Vittime. Vittime inutili. Ancora più inutili del poeta Gur o di Galileo. Perché le persone come te non lottano. Per lottare bisogna odiare, ed è proprio quello che non sai fare…» Rumata si addormentò di nuovo. In sogno vide Kyra in piedi sul bordo di un tetto, in Russia, con un degravitatore allacciato alla cintura. Anka, con tono allegro e scherzoso, l’incitava sull’orlo di un abisso immenso… «Rumata» disse Kyra. «Ho paura!» «Di cosa, cara?» «Stai sempre zitto, sempre zitto. Ho una sensazione strana…» Lui la strinse a sé. «Va bene, cara, allora parlerò, e tu ascoltami bene. Lontano, molto lontano, oltre la grande foresta, c’è un castello dall’aria sinistra e inaccessibile. Là vive il barone Pampa, un uomo allegro, felice e buono, il miglior barone di tutta Arkanar. Ha una moglie, una donna bella e gentile che lo ama quando è sobrio, ma non può sopportarlo quando è ubriaco…» S’interruppe e ascoltò attentamente. Dalla strada veniva il rumore di molti scarponi, il vociare degli uomini, il nitrito dei cavalli. «Sembra che sia qui, eh?» disse una voce roca sotto le loro finestre. «Già». «Alt!» I tacchi dei molti scarponi risuonarono sui gradini della scala esterna, e poco dopo dei pugni bussarono al portone. Kyra, spaventata, si strinse a Rumata. «Aspetta, cara» disse lui gettando via le coperte. «Sono venuti per me» mormorò Kyra. «Lo sapevo che sarebbero venuti». Rumata si liberò dal suo abbraccio e corse alla finestra. «Nel nome del Signore!» gridavano da sotto. «Aprite, se dovremo sfondare la porta sarà peggio per voi!» Rumata scostò appena la tenda e la luce ondeggiante delle torce riempì la stanza. Davanti alla casa si muoveva un gruppo abbastanza consistente di cavalieri incappucciati, gente sinistra vestita di nero. Rumata guardò rapidamente di sotto, poi esaminò l’intelaiatura della finestra. Era fissata solidamente al muro. Da basso stavano cercando di sfondare la porta principale. Il giovane frugò nel buio in cerca della spada e sfondò i vetri con l’elsa. Sulla strada cadde una pioggia di cocci tintinnanti. «Ehi, voi!» gridò. «Che cosa volete? Siete stanchi di vivere?» I colpi cessarono. «Combinano sempre guai» dissero delle voci. «Il padrone è in casa…» «E che ci importa?» «Non lo sai? Con la spada in mano è imbattibile…» «Avevano detto che stanotte sarebbe stato via e non sarebbe tornato prima dell’alba». «Paura?» «No, no, non abbiamo paura. È solo che non abbiamo ordini riguardo a lui. Non abbiamo l’ordine di ucciderlo…» «Lo legheremo, lo picchieremo e poi lo incateneremo mani e piedi! Ehi, chi sta spingendo con le lance, laggiù?» «Se solo non ci spaccasse la testa…» «No, non aver paura. Dicono che ha la strana abitudine di non uccidere nessuno». «Vi sgozzerò come cani» minacciò Rumata con una voce terribile. Kyra si strinse dietro a lui. Il cuore le batteva all’impazzata, Rumata lo sentiva. Di sotto si sentivano urlare i comandi: «Buttate giù la porta, fratelli! In nome del Signore!» Rumata si voltò e guardò Kyra negli occhi. Lei lo guardava come poco prima, con la paura e la speranza negli occhi. Nelle sue pupille asciutte si riflettevano le torce. «Andiamo, piccola» le disse teneramente. «Non avrai paura di quelle canaglie? Vai a vestirti. Non ha senso restare qui». Indossò velocemente la maglia di metalloplast. «Li caccerò via e poi ce ne andremo. Andremo al castello del barone Pampa». Lei si avvicinò alla finestra per guardare. Sul viso le passavano punti di luce rossastra. Da sotto venne il rumore del legno che si rompeva, del metallo che si schiodava. Il cuore di Rumata sembrava scoppiare, pieno d’ansia e d’amore per lei. «Li caccerò via come cani rognosi» pensò. Si chinò per prendere la seconda spada, ma quando si rialzò, Kyra non era più davanti alla finestra. Si aggrappava alle tende, e scivolava lentamente a terra. «Kyra!» La freccia di una balestra le aveva trapassato la gola, un’altra era conficcata nel petto. La prese tra le braccia e la mise sul letto, posandola dolcemente sulle coperte. «Kyra…» disse piano. Lei gemette appena e le membra le si afflosciarono. «Kyra» ripeté. Lei non rispose. Per un momento restò chino su di lei, poi prese le spade, scese lentamente le scale fino all’entrata e aspettò che il portone cedesse sotto i loro colpi… Epilogo «E poi?» chiese Anka. Pashka abbassò gli occhi, si batté il palmo della mano sul ginocchio, si chinò e raccolse una fragola selvatica accanto ai suoi piedi. Anka aspettò. «Poi…» mormorò. «Per la verità, nessuno sa con certezza che cosa è successo dopo, Anka. Non aveva con sé la trasmittente, e dopo che la sua casa è stata bruciata e rasa al suolo, ai Controlli hanno capito che le cose stavano andando male, e hanno subito mandato ad Arkanar una squadra speciale d’emergenza. Hanno lanciato sulla città una buona quantità di gas soporifero, per ogni eventualità. Prima hanno cercato la casa. Ma poiché era stata rasa al suolo sono rimasti confusi, non sapevano dove pescarlo. Ma poi hanno visto…» Esitò per un momento, imbarazzato. «Be’, hanno visto le tracce che aveva lasciato». Pashka tacque di nuovo e cominciò a mettersi in bocca una fragola dopo l’altra. «E poi?» disse piano Anka. «Sono andati a Palazzo… Lo hanno trovato là». «Come?» «Be’, dormiva. Anche tutti gli altri… intorno a lui… erano distesi a terra. Qualcuno dormiva, altri… Hanno trovato anche Don Reba…» Pashka guardò un momento Anka, poi riabbassò gli occhi. «Lo hanno preso, cioè, hanno preso Anton e lo hanno riportato alla base… Vedi, Anka, lui non ci dice niente. E in generale adesso parla pochissimo». Anka sedeva drittissima, pallida, e guardava oltre la testa di Pashka verso il prato davanti alla capanna nel bosco. Gli abeti perdevano gli aghi, ondeggiando al vento. Due grasse nuvole bianche attraversavano lentamente il cielo azzurro. «E cosa c’entrava la ragazza?» chiese lei. «Non so» disse Pashka, risoluto. «Ascolta, Pashka» disse Anka. «Forse non sarei dovuta venire». «Smettila di dire sciocchezze! Sarà contento di vederti…» «E ho la sensazione che si stia nascondendo nei cespugli, che ci stia osservando e che aspetti che me ne vada». Pashka rise. «No, no. Non si sta nascondendo nei cespugli, credimi. Non sa nemmeno che sei qui. È andato a pescare da qualche parte, come al solito». «E con te come si comporta?» «Così così. Andiamo d’accordo. Ma non volevi qualcos’altro?…» Tacquero entrambi per un momento. «Anka. Ti ricordi la strada anisotropa?» Anka aggrottò la fronte. «Che strada?» «La strada anisotropa. Con il cartello di senso unico. Non ti ricordi? Eravamo là, tutti e tre…» «Oh, sì. Adesso ricordo. Anton l’aveva chiamata così». «Sì, e poi è entrato nella strada a senso unico dalla parte sbagliata, percorrendola fino in fondo. Quando è tornato ha detto di aver trovato un ponte crollato e lo scheletro di un tedesco incatenato a una mitragliatrice». «Questo non lo ricordo. E allora?» «Ripenso spesso a quella strada. Forse in qualche punto c’è un collegamento… La strada era anisotropa, proprio come la Storia. Non si torna indietro. E lui è andato avanti lo stesso. E ha incontrato uno scheletro incatenato». «Non ti seguo. Cosa significa lo scheletro incatenato?» «Non lo so» ammise Pashka. «È solo un’impressione che ho avuto». Anka disse: «Stai attento che non rimugini troppo! Cerca di tenerlo impegnato in discorsi qualsiasi. Parla del più e del meno con lui. Cerca di distoglierlo dalle sue preoccupazioni». Pashka sospirò profondamente. «Oh, lo so… Ci ho provato. Ma cosa se ne fa dei miei discorsi? Ascolta per un po’, sorride e poi dice: ‘Pashka, perché non ti siedi qui? Vado a fare una passeggiata’. Poi se ne va. E io resto seduto lì… All’inizio lo seguivo di nascosto, ma adesso sto seduto ad aspettarlo. Forse tu potresti…» Improvvisamente la donna si alzò in piedi. Anche Pashka si alzò e si guardò intorno. Anka guardò con il fiato sospeso Anton che sbucava da una radura e andava verso di loro. Molto alto, con le spalle larghe, il viso pallido. Non sembrava per niente cambiato. Aveva sempre avuto quell’espressione seria. Lei gli andò incontro. «Anka» disse lui teneramente. «Anka, amica mia». Spalancò le braccia. Lei avanzò timidamente, poi fece svelta un passo indietro. Sulle sue dita… Ma non erano rosse di sangue. Solo di fragole. È DIFFICILE ESSERE UN DIO Prologo Capitolo I Capitolo II Capitolo III Capitolo IV Capitolo V Capitolo VI Capitolo VII Capitolo VIII Capitolo IX Capitolo X Epilogo